La metafora del naufragio
Sarà tenuta a galla da grandi cassoni d’aria ai due lati. E se ne andrà mestamente, a soli due nodi, verso la propria rottamazione. Se tutto andrà bene, è il caso di dirlo dato che c’è di mezzo una votazione molto insidiosa, l’economia italiana smetterà di affondare e riprenderà il suo cammino. Sarà comunque un viaggio lento e di breve durata. Trainata dalle esportazioni, tenuta a galla da un governo che cerca di stare a galla più a lungo possibile, rischia di essere un cammino lento e di breve durata, dalla recessione, alla stagnazione, ad una nuova recessione.
La vicenda della Concordia è stata spesso utilizzata, soprattutto dalla stampa estera, come metafora del declino del nostro paese. È un confronto avvilente e per molti aspetti ingiusto. Ma è utile quando si pensa alle sfide che ci stanno di fronte. Chi aveva visto la fine del tunnel, si sarà ricreduto di fronte alla revisione al ribasso delle stime del Pil del secondo trimestre e al calo della produzione industriale a luglio. Dopo otto trimestri consecutivi di recessione ci sarà nei prossimi mesi un raddrizzamento, una stabilizzazione nell’andamento del reddito nazionale. I germogli sono talmente indietro che basta un nulla per farli morire. Una nuova fase di instabilità politica, una manovra correttiva che, dati i pochi mesi a disposizione per correggere i conti, non potrebbe che comportare nuove tasse, equivarrebbe a una gelata improvvisa. E la nostra economia sarà comunque trainata dalle esportazioni, dato che la domanda interna non può che essere debole con un mercato del lavoro in cui 9 milioni di persone sono in condizioni di disagio occupazionale e non aumentano i posti vacanti, la domanda di lavoro. Anche il traino delle esportazioni rischia di essere breve. La spinta sin qui venuta dalle economie emergenti si va affievolendo. I Brics pagano, forse più che il progressivo irrigidimento della politica monetaria Usa, la debolezza della domanda europea, dovuta a un eccesso di austerità in Europa. Oggi l’Eurozona ha un surplus negli scambi commerciali
senza precedenti, superiore addirittura a quello della Cina. Abbiamo perciò una ragione in più per lamentarci di questa austerità eccessiva: indebolisce anche i nostri potenziali rimorchiatori. Ed è bene non farsi illusioni sul cambiamento di rotta dopo le elezioni tedesche. La campagna elettorale in Germania ha mostrato un’opinione pubblica che ritiene che si sia fatto fin troppo per aiutare i paesi del Sud Europa. E Angela Merkel non sembra affatto avere un’agenda da leader dell’Unione.
Enrico Letta sostiene, a ragione, che in assenza di un governo, saremmo costretti a subire manovre dettate a Bruxelles, se non direttamente a Berlino. Vero. Ma proprio questa sua affermazione implica che un governo che rimane a galla può occuparsi del destino del nostro paese anziché limitarsi a gestire gli affari correnti. Non è di un governo dimissionario che abbiamo bisogno. Per quanto il mandato di questo esecutivo sia breve, in 15 mesi si possono fare tante cose. Possibile, innanzitutto, rinegoziare i saldi dei conti pubblici nel 2014 e 2015, contemplando riduzioni di tasse che diano ossigeno all’economia, anche anticipando i tagli di spesa prossimi venturi (ben definiti e già votati dal Parlamento), che serviranno a finanziarla. È questa l’intenzione del governo? Spiegherebbe perché la Relazione al Parlamento preveda peggioramenti dei nostri conti pubblici nel 2014 e nel 2015 rispetto alle stime precedenti, nonostante il miglioramento nell’andamento del Pil. Inoltre, è possibile cambiare la composizione della spesa e del gettito anche a saldi invariati. Sin qui il governo si è mosso nella direzione sbagliata: il rinvio delle tasse sulla casa sta già portando ad un aumento della pressione fiscale sul lavoro attraverso l’aumento delle addizionali sull’Irpef (in parte anche perché i meccanismi compensativi incentivano le amministrazioni locali ad aumentare le aliquote per poter ricevere, un domani, maggiori trasferimenti). Fondamentale ora rimediare a questi errori agendo subito non solo sul livello, ma anche sulla composizione della spesa pubblica in modo tale da renderla più amica della crescita. Da quando è iniziata la
recessione, le due componenti di spesa cresciute di più sono la previdenza (la cui quota di spesa pubblica è aumentata dal 33 al 35 per cento) e la sanità (ormai pari a un sesto della spesa complessiva). Nonostante tanti annunci sui tagli ai costi della politica, le spese per il funzionamento degli organi esecutivi e legislativi sono aumentate dal 2007 al 2011 assieme alla loro quota sulla spesa complessiva. Si è ridotta invece di un punto percentuale la spesa per l’istruzione. Non si può neanche sostenere che questi cambiamenti nella composizione della spesa pubblica siano dovuti alla necessità di trovare in fretta risorse per finanziare il debito pubblico. La quota di spesa per interessi sul debito è, infatti, diminuita in questi anni. Si tratta, quindi, di scelte consapevoli, tutt’altro che obbligate. Si è voluto sostenere, sia a livello nazionale (pensioni), che locale (sanità), la spesa rivolta principalmente a chi ha più di 60 anni, a scapito degli investimenti sul futuro del nostro paese.
Se il governo Letta non vuole essere ricordato solo per la capacità di stare a galla, deve rapidamente dare un segnale di cambiamento nelle priorità svelate dalla composizione della nostra spesa pubblica. Può impegnarsi nell’affrontare il nodo delle cosiddette “pensioni d’oro” ed evitare di disfare, come ha fatto con altri provvedimenti del governo Monti, anche la riforma delle pensioni dell’esecutivo precedente. Può abbattere per decreto, ponendo stringenti tetti ai loro bilanci, le spese degli organi istituzionali e sfidare il Parlamento ad andare contro la volontà degli elettori. Può fare una seria rassegna della spesa nella sanità, in cui si annidano gli sprechi più vistosi, soprattutto ai confini fra pubblico e privato. Può ancora cambiare la composizione della spesa sociale rendendola più equa e maggiormente congeniale alle esigenze di ristrutturazione della nostra struttura produttiva. Se non farà questo, la sua sarà una lenta marcia verso la rottamazione, preludio magari di una contesa tra politici toscani e siciliani, come quella cui stiamo assistendo tra Piombino e Palermo sul luogo in cui verrà demolita la Concordia.
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