La guerra del petrolio sul tetto del mondo

by Sergio Segio | 19 Settembre 2013 5:37

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NOVO AGANSK (Siberia occidentale). Il Grande Spirito del Fiume è molto arrabbiato. Da troppi anni assiste sdegnato all’opera devastatrice dei
cjnzhije, gli alieni, del petrolio. Ma adesso forse la misura è colma. Il suono di questo tamburo che echeggia tra i pini e le betulle dell’immensa tajga siberiana, lo risveglierà. E allora la furia repressa del Grande Spirito si abbatterà finalmente sugli invasori, e li incenerirà come quel drappo rosso che pochi minuti fa tutti quanti abbiamo sfiorato con il palmo delle mani e che ora arde sul fuoco insieme agli altri doni da sacrificare, un paio di fette di pane, qualche tocco di carne di renna, un pugno di funghi medicinali.
Ma è difficile concentrarsi su un rito così strampalato, sapendo che si ripete ormai ogni giorno senza che sia mai cambiato qualcosa.

All’orizzonte bruciano le fiamme dei pozzi, chiazze di greggio escono dai tubi logori e trascurati che scorrono invisibili sotto la vegetazione fittissima, si disperdono nel terreno, creano veri e propri laghetti color pece che ammorbano l’aria, uccidono i licheni che ci mettono anni per crescere di pochi centimetri e che sono l’unico cibo possibile per le renne quando arriva il Grande Freddo da ottobre fino a maggio inoltrato.
Rassegnato da anni all’invasione degli “alieni” e allo sfruttamento intensivo delle sue terre, il Popolo dei boschi sa bene che le cose hanno preso una brusca accelerazione verso il peggio. Lo stesso Sasha, che ogni giorno danza e suona il tamburo indossando giubba e sandali bianchi e azzurri della tradizione Khanty, non è del tutto convinto. Dall’altra parte della radura, l’inviato del colosso petrolifero Lukoil lo fissa con un po’ di commiserazione attraverso le sue lenti a specchio. E’ arrivato all’alba con il consueto seguito di Suv, guardie del corpo e segretari in giacca e cravatta per sorvegliare da vicino i potenziali ribelli. Non fanno moltapaura:oltreaSasha,cisono il padre, la madre, un fratello e un paio di bambini che giocano vicino ai resti arrugginiti di un oleodotto d’era sovietica.
Nel cuore dell’area di estrazione petrolifera più vasta del Pianeta, le tecnologie arretrate, l’ossessione del risparmio per tenere bassi i costi di produzione e l’antica indifferenza per la salvaguardia dell’ambiente, stanno cominciando a creare problemi irreversibili. Nel silenzio dei mezzi di comunicazione, nella totale paralisi dei presunti organi di controllo, la Siberia comincia lentamente a morire. Proprio adesso che le stesse compagnie, con gli stessi metodi e identiche filosofie si preparano ad aggredire le più vulnerabili terre dell’Artico doveèancorapiùdelicatol’equilibrio che tiene in vita rare specie animali e fragili ecosistemi.
Nemmeno Sasha e i suoi sanno spiegare perché non mollano, perché resistono a condizioni difficili da spiegare a chiunque venga fin qui, nel centro esatto della Russia, a migliaia di chilometri da ogni luogo che si possa in qualche modo definire civilizzato. Un tempo terra di gulag e di deportati, adesso fonte inesauribile di ricchezza per pochi miliardari e speranza di lavoro per migliaia di disperati provenienti dalle disastrate repubbliche asiatiche della dissolta Unione Sovietica.
Fieri discendenti dei Khanty-Mansiysk, primi e unici abitatori di queste terre, con tratti somatici e tradizioni che ricordano gli Indiani d’America,i membri del clan familiare di Sasha cercano di dare un senso romantico ed eroico alla loro scelta. Raccontano che lo fanno per tradizione familiare, perché proprio non gli riesce di adeguarsi a certi schemi cosiddetti civili. Ti spiegano come sia impagabile cibarsi del pesce appena pescato dal fiume, dar da mangiare alle renne che pascolano tra le tende, dormire sotto alle stelle immersi nei profumi del bosco e ignorando le spaventose dimensioni delle zanzare. Ma la realtà è che non ci sono altre alternative. Se sei nato da queste parti puoi solo scegliere tra continuare a vivere da selvaggio o adeguarti alle condizioni degli immigrati arrivati da lontano.
Loro, gli alieni, si fermano nelle baracche di legno della periferia di Surgut, o in quelle più malandate e spoglie di piccoli villaggi come Nizhnevartovsk. Vengono dal Caucaso, dal Kirghizistan, vivono una simulazione di vita cittadina, ruotando intorno allo spaccio emporio e alle poche locande che servono alcolici e qualcosa da mangiare. All’alba raggiungono i campipetrolifericonicamiondelle compagnie. Tornano a buio fatto e si preparano a un’altra giornata dentro case minuscole. Nel deserto delle loro “città” regna la noia, la depressione dei più giovani. D’inverno quanto tutto diventa implacabilmente bianco e uniforme dilaga il problema della “deprivazione sensoriale” che rende ancora più apatici e privi di ogni stimolo. Tanto che nel deserto gelido che è il loro habitat naturale irrompono ormai da tempo problemi metropolitani come l’alcolismo e la droga.
Tanto vale restare tra i boschi, vivere dei doni del Grande Spirito del Fiume e mantenersi con i magri indennizzi elargiti dalle compagnie ai proprietari di queste terre. Cifre simboliche che non superano i 15 euro al mese per persona e che vengono integrate di tanto in tanto con qualche “fornitura straordinaria previa apposita richiesta scritta”: qualche telo impermeabile per le tende, una motosega, un piccolo fuoribordo per le rudimentali canoe scavate in un tronco di pino.
La Rosneft,la più grande impresa petrolifera di Russia e del mondo, che controlla tutti i contratti di sfruttamento della regione, li vede con sospetto, teme un’improbabile ribellione, non approva i loro stretti legami di amicizia e di collaborazione con i volontari di Greenpeace. E di fatto li isola in quelle che sono delle vere e proprie riserve non dichiarate: decine e decine di sentieri sterrati da percorrere prima di arrivare a una strada vera, posti di controllo dove devi spiegare come, perché e con chi, stai lasciando la tua residenza nella foresta per raggiungere il mondo esterno.
Ma anche questa assurda forma di resistenza comincia a presentare degli inconvenienti. Le perdite di una rete di oleodotti sempre più marcia ha già ucciso ruscelli e laghi un tempo pescosi lungo le rive dell’immenso fiume Ob. Le renne, unica fonte di sostentamento per i nuclei familiari come quelli di Sasha, cominciano a morire di fame e di stenti. Al di là degli sforzi dei loro allevatori, d’inverno le renne devono per forza fare da sole. Bucano la neve, rompono con gli zoccoli lo strato di ghiaccio e si nutrono dei licheni che crescono spontanei. Da un po’ di tempo però il loro cibo comincia a scarseggiare, inquinato e comunque reso immangiabile dal greggio che trasuda dai tubi in disfacimento.
Secondo gli infaticabili osservatori di Greenpeace ci sono state oltre 10mila rotture di tubi con conseguente fuoriuscita di greggio, solo nell’ultimo anno. Il che equivale a 216mila barili di petrolio disseminati tra campi, boschi e corsi d’acqua. Il greggio viaggia sotto la vegetazione, rimane nascosto per mesi dai ghiacci, e d’estate riaffiora in mille pozze nere che ormai hanno trasformato vaste zone della tajga in luoghi maleodoranti e assolutamente invivibili. Una media di incidenti e di inadeguatezze tecniche che vale almeno il triplo di quelle di altre compagnie che si occupano della estrazione. Colpa certamente delle tecnologie non adeguate ma anche della scarsa attenzione al problema e soprattutto della assoluta impunità di cui Rosneft gode in Russia. Nata come impresa di Stato, sulle ceneri della Yukos, sequestrata all’oligarca ribelle Mikhail Khodorkovskij, in carcere da dieci anni, Rosneft è il simbolo del potere del clan di amici e sodali di Vladimir Putin. Affidata direttamente da qualche mese al Igor Sechin, detto “il soldato del Cremlino” e ritenuto il più abile consigliere economico del Presidente, Rosneft si è lanciata in investimenti miliardari alla scoperta di nuovi giacimenti nel mar glaciale Artico in cooperazione con altre compagnie come la americana Exxon e in parte l’italiana Eni. Difficile che abbia tempo e fondi per rimediare all’inquinamento di una terra ormai conquistata e considerata nel pieno del suo sfruttamento. Greenpeace continua a denunciare a gran voce. Scettico ma ostinato, Sasha passa ore lungo il fiume a consultare il Grande Spirito e ogni mattina riscalda il suo tamburo.

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