La filastrocca del colpo di Stato

by Sergio Segio | 27 Settembre 2013 7:03

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 NON è ovviamente la prima volta che Berlusconi parla di golpe. Sembra di ricordare che una volta, nel corso di una conferenza stampa, con legittimo sbalordimento una giornalista cilena gli chiese conto di quell’espressione così drammatica e significativa per la sua gente.
Ma ormai si sa che il Cavaliere straparla, esagera e fa lo spiritoso, per principio, anche su questioni piuttosto delicate. Come quando durante una visita di Putin a villa Certosa, a una giornalista russa che aveva sollecitato il suo presidente a rispondere su una faccenda a lui sgradita, s’inserì facendo il gesto della mitraglietta, che nel paese di Anna Politkovskaja francamente se lo poteva risparmiare – e infatti la poveretta scoppiò a piangere.
Adesso il colpo di Stato richiama, anche nelle reazioni a livello istituzionale, quanto accadde a proposito della «guerra civile», nemmeno due mesi orsono.
Tra la guerra civile dei primi di agosto e il colpo di Stato di fine settembre si colloca, con buona pace dell’Esercito di Silvio, il più vivido coro di lamentazioni di fedelissimi e fedelissime chiamato ad annunciare la triste sorte del presidentissimo. Dal «me lo state uccidendo» di Francesca Pascale alle «toghe con licenza di uccidere», appunto, della Santanchè, passando per l’evocazione dei «carnefici» da parte di Bondi e seguitando con una filastrocca, invero piuttosto truculenta nella sua varietà di mezzi per così dire tecnici cui sarebbe adibita la conclusione dell’avventura berlusconiana: la «forca » (Guzzanti), il «cappio» Brunetta, il «plotone d’esecuzione» e quindi, nella stessa seratina di
Porta a porta,
la «camera a gas» richiamata da uno Schifani che in verità sembrava piuttosto ilare.
Oh, quante se ne sono sentite! «L’esempio di Cristo – questo è Alfano al meeting di Cl – testimonia l’esigenza di un giusto processo”. Ma ora, a forza di contestualizzare, decostruire e classificare le scempiaggini e le stravaganze dell’odierna lotta di potere non solo si fa sempre più fatica, ma alla lunga si corre anche il rischio di prenderle sul serio, magari anche solo riscattandone con diligenza la palese irrealtà. Con tale premessa si tornerebbe a insistere segnalando che Berlusconi, il recidivo, ha già chiamato una decina di volta «al golpe! al golpe!».
A proposito di Mani Pulite, e va
bene; ma poi, comprensibilmente, pure al momento in cui ricevette l’avviso di garanzia durante il suo primo e breve governo. Il punto, semmai, è che non sempre le ripetizioni esaltano, purificano e rafforzano le strategie comunicative. Per cui questo benedetto colpo di Stato rispuntò fuori anche al momento in cui fu varata la par condicio e ancora quando venne fuori il più gagliardo ciclo di intercettazioni telefoniche delle olgettine, tra buste, bustine, culi flaccidi e altre graziose manifestazioni di gratitudine.
Ma siccome l’Italia è di per sé un amaro spasso di rutilante incongruenza, ecco che di nuovo nell’autunno del 2011 l’allora premier Berlusconi denunciò di aver «sventato» un golpe dopo che il suo governo era andato sotto alla Camera sul bilancio dello Stato. In quell’occasione – lo si ricorda oggi che i parlamentari del Pdl vorrebbero abbandonare Montecitorio e Palazzo Madama – il Cavaliere posticipò di cinque anni (disse 1929 invece di 1924) l’episodio dell’Aventino. Ma tant’è.
Passarono due o tre settimane e il Cavaliere ritornò sul colpo di Stato quando prese visione del calendario fissato dal Tribunale di Milano per il processo Ruby. E poi quando, ormai fuori da Palazzo Chigi, a quella stessa e ricorrente entità di natura eversiva volle attribuire la sua dipartita.
Tale pervicace e anche tediosa inflazione di golpe porta senz’altro a sdrammatizzare la sparata di questi giorni. Ma al dunque l’esempio più illuminante dell’uso della parola da parte di Berlusconi risale alle elezioni per il Quirinale allorché ebbe modo di spiegare che se la sinistra si fosse preso, dopo i presidenti delle Camere, anche quello della Repubblica, sarebbe stato – ebbene sì – un golpe.
Un giorno si studierà come il linguaggio e più in generale la comunicazione di quest’uomo proveniente dalla cultura aziendale e pubblicitaria abbia definitivamente modificato l’arte politica nell’Italia a cavallo tra il XX e il XXI secolo. Ma intanto esiste già una significativa e specifica bibliografia che un po’ fa capire come mai Berlusconi, a un passo dalla fine, non ha esitato a richiamare «i 55 giorni più brutti della mia vita» – che a loro volta richiamano, consapevole o meno che ne sia il Cavaliere, i 54 giorni dell’interminabile passione di Aldo Moro.
E qui non si sa che pensare, e l’unica forse è rifarsi ai testi specialistici, come quel saggio «Parole in libertà», di Bolasco, Giuliano e Galli de Paratesi (Manifestolibri, 2006), analisi linguistica e statistica del «berlusconese», attraverso cui si capisce che si tratta di un prodotto quasi perfetto, breve, chiaro, efficace, teatrale e sentimentale, fantastico e perfino religioso con i suoi appelli ai «missionari della libertà». Ma anche e per questo «profondamente irrazionale e corrosivo », manicheo e così mistificatorio da «svilire le istituzioni».
La lingua della crisi del potere e della guerra civile da acquistare nel supermarket della retorica. Un colpo di Stato contro la realtà.

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