La decadenza della Costituzione

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È la ragione per la quale si dà vita ad associazioni politiche (gli stessi partiti, giuridicamente, sono appunto associazioni a fine politico) nelle quali, per definizione, si decide di rinunciare a qualcosa di sé, del proprio punto di vista, per dare efficacia al fine comune. Nella convinzione che, nel calcolo costi-benefici, ne valga la pena. È la ragione per la quale diffido di chi, ad ogni passo, evoca ragioni di coscienza che autorizzerebbero a sottrarsi al vincolo di solidarietà di partito o di gruppo.
Ciò detto, devo confessare che, appunto in coscienza, eccezionalmente, non me la sono sentita di dare il mio voto alla legge costituzionale che, in deroga alla procedura ordinaria fissata nell’art. 138, istituisce il Comitato per le riforme costituzionali e ne stabilisce tempi, metodo e procedure. L’ho fatto in forma discreta, senza clamore, non partecipando al voto finale.
Provo a spiegarne le ragioni. Ometto la questione, pur delicatissima e controversa, della deroga al 138, che pure è stata energicamente censurata da una parte cospicua e qualificata della comunità dei costituzionalisti. Ammesso che si tratti di deroga limitata, essa tuttavia sarebbe la terza nella vicenda repubblicana e farebbe di nuovo insidioso precedente. Rammento che, dopo l’introduzione della legge elettorale maggioritaria, costituzionalisti e politici, capeggiati da un maestro come Leopoldo Elia, depositarono proposte tese semmai ad alzare il quorum, cioè a potenziare e non già a semplificare la procedura ordinaria di revisione costituzionale onde evitare che maggioranze parlamentari contingenti espressione di una minoranza nel paese potessero cambiare la legge fondamentale. Ma a fare problema è soprattutto l’oggetto della riforma, la sua inopinata estensione: oltre sessanta articoli, quasi l’intera seconda parte ordinamentale.
Non mi azzardo a sostenere che questo parlamento non sarebbe legittimato a operare revisioni, magari perché eletto su base marcatamente maggioritaria e dunque non adeguatamente rappresentativa del corpo elettorale. Sarebbe troppo. Tuttavia, più l’oggetto si fa esteso più si pone un problema di opportunità se non di legittimità. Di più: i partiti rappresentati in parlamento, ai loro elettori, in campagna elettorale, non avevano chiesto un mandato di tale portata.
Mi limito al Pd: cambiare la forma di governo sarebbe operazione sistemica, esigerebbe quasi una nuova Costituzione. Avremmo dovuto discuterne prima e farci dare un mandato in tal senso. Vi sono poi due altri problemi. Il primo è la confusione tra prerogative del governo e prerogative del parlamento. Sin dal suo insediamento il governo Letta si ingerito pesantemente nella partita, che sarebbe di competenza strettamente parlamentare. Ha legato la sua sorte e persino la sua durata (il “cronoprogramma!”) al carro delle riforme. Tutta la procedura straordinaria fa impropriamente del governo l’attore-protagonista. Conosciamo la ragione: si è voluto per questa via, un po’ forzosamente, dilatare l’orizzonte di un governo che nasceva asfittico e precario. Il rilievo non è puramente formale, da cultori del diritto. Ha una corposa valenza politica che sarebbe ipocrita tacere: la confusione tra la maggioranza politica di governo e la maggioranze parlamentari (al plurale) che potrebbero e dovrebbero prodursi liberamente.
Il problema non sta nella difficoltà di spiegare come il Pd, oltre a stare al governo con il Pdl, con esso si accinge a riscrivere larga parte della Costituzione (per quanto non sia agevole cooperare tra chi a parole celebra la nostra come la Costituzione più bella del mondo e chi, sino a ieri, la bollava come sovietica), ma nella difficoltà di immaginare che, su titoli qualificanti della riforma, ci si possa dividere dagli alleati di governo. In breve, il problema non è spiegare che si riscrive la Costituzione anche (sottolineo: anche) con Berlusconi, ma in un rapporto privilegiato e condizionante con lui in quanto principale partner di governo. Infine, confesso il grande, personale imbarazzo che ho provato nel corso dell’esame in parlamento: nelle stesse ore in cui votavamo la legge che metteva in moto una pretenziosa, grande riforma costituzionale, al Senato si consumava lo scontro con il Pdl sulla decadenza di Berlusconi.
Come spiegare a noi stessi prima che al paese e al nostro popolo democratico che ci accingiamo a riscrivere la nostra legge fondamentale insieme a chi si rifiuta in ogni modo e con ogni mezzo di onorare i più elementari principi cardine dell’ordinamento: lo Stato di diritto, la separazione dei poteri, l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge? C’è un limite alla finzione e all’ipocrisia. Del resto, nessuno riuscirà a levarmi di testa che la ragione di tanta leggerezza e della sorprendente sordità del Pd al dissenso di studiosi e associazioni impegnate a difesa della Carta e tradizionalmente a noi vicini sia originata dal retropensiero che sia tutta un’ammuina, che tanto non se ne farà nulla, che l’ambaradan che si è voluto mettere su solo per allungare il brodo del governo finirà in un nulla di fatto. Non esattamente un auspicio responsabile.
Qui semmai sono io, accusato di conservatorismo costituzionale, a reagire con disappunto: perché una revisione puntuale e mirata da operare con la procedura ordinaria sarebbe effettivamente necessaria, quella, matura e condivisa, del nostro bicameralismo paritario con la connessa riduzione dei parlamentari. Ma sono pronto a scommettere che non la si farà. Quasi si dovesse solo allestire un rutilante spettacolo per intrattenere il pubblico e…trattenere un governo che si regge a un filo. Con questi sentimenti, potevo io votare l’avvio della grande riforma? E non è singolare che io sia stato il solo tra i deputati Pd ad avvertire il problema?


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