La Comune della metropoli
Questo nuovo libro di David Harvey – Città ribelli, Il saggiatore, pp. 224, euro 20 – consente di fare il punto sul suo percorso teorico e politico, dove la città ha sempre avuto un ruolo da protagonista, in quanto forma dell’abitare e del produrre società. Harvey ha infatti già scritto sulla città in molti dei suoi primi lavori, perché vi vedeva, siamo al giro di boa tra gli anni Settanta, il luogo imprescindibile per una critica dello sviluppo capitalistico. Ma questo suo ultimo lavoro è però un passaggio obbligato per comprendere come il generoso e ambizioso tentativo di Harvey di innovare, in continuità, la tradizione marxiana che ha nutrito la sua prassi teorica-politica abbia raggiunto o meno il suo obiettivo. È dal dal détournement che produce leggendolo che va quindi valutato il volume. Poche le conferme dell’efficacia del pensiero politico della sinistra che si ricavano dalla sua lettura, molte invece le aperture di credito, mantenendo, va da sé, la debita distanza, alla tradizione libertaria di Murray Bookchin sulla confederazione delle municipalità quale forma politica alternativa allo Stato o alla riappropriazione del comune proposta da Toni Negri e Michael Hardt nel loro Commonwealth.
Lo Stato del comunardo
Entrambe le tesi sono, per Harvey, utili per spiegare le dinamiche sociali e politiche dei movimenti sociali che vedono la classe operaia tradizionale componente minoritaria, mentre il sindacato e il partito politico non sono le forme organizzative adeguate per figure lavorative erratiche, nomadi, intermittenti come sono i flussi lavorativi nelle metropoli che producono il «comune». Per questo, il precariato è la figura lavorativa che accomuna tutti i movimenti sociali, nel Nord come nel Sud del Pianeta. Il «comune» che viene prodotto nella città è sì esito della produzione di merci, ma anche di quelle condizioni affinché ci sia produzione di merci. Il nodo da sciogliere è dunque immaginare istituzioni che regolano l’accesso al comune. A differenza però dei libertari e dei teorici della riappropriazione del comune, il teorico americano ritiene ancora lo Stato l’istituzione che possa consentire il governo egualitario della città e anche l’eguale accesso al comune. Discutere di città vuole dire quindi discutere anche della forma-stato, anche se su questo aspetto il volume è povero di elaborazione, relegando questo nodo nelle pratiche politiche che emergono nel conflitto sociale e politico. Harvey è in questo libro un comunardo, consapevole però che è ineludibile una transizione che ha nello Stato lo strumento indispensabile per preparare la sua estinzione.
Con questo Città ribelli idealmente Harvey ritorna quindi sul luogo del delitto – la politica della trasformazione -, anche se un anticipo delle sue tesi era stato possibile leggerlo nel piccolo, ma denso volume Il capitalismo contro il diritto alla città (ombre corte, pp. 106, euro 10. A questo proposito la recensione di Sandro Mezzadra pubblicata su queste pagine il 7 Luglio 2012 brilla per capacità chiarificatoria sulle potenzialità del diritto alla città proposta da Harvey). La città, ma sarebbe meglio sostituire a questo termine il ben più pregnante metropoli, è presentato come il contesto dove il capitale può reinvestire le eccedenze di prodotto che il mercato non riesce ad assorbire. Allo stesso tempo è il luogo dove l’eccedenza di capitale, nella sua forma monetaria, può trovare terreno di investimento e far ripartire il flusso produttivo bloccato altrove. Un atelier, quindi, dove il rapporto tra capitale finanziario, capitale industriale e, aggiunge l’autore, capitale culturale trova nuovi punti di equilibrio. Di conseguenza, la città è anche il luogo della resistenza, dei movimenti sociali che contestano il regime di accumulazione che usa la finanza per aggirare i punti di blocco del flusso produttivo.
Da questo punto di vista, Città ribelli può essere considerato un’appendice del libro di David Harvey, L’enigma del capitale (Feltrinelli), ma che raggiunge una sua autonomia e forza esplicativa che lo rendono, appunto, l’approdo di un percorso teorico e politico ventennale. Ma per meglio inquadrare gli esiti di questo lavoro di ricerca, occorre fare i conti con la sua analisi sul neoliberalismo.
L’impasse del neoliberismo
Il geografo americano vede le politiche economiche e sociali avviate negli anni Ottanta come una risposta dell’establishment al movimento globale che dagli anni Sessanta e Settanta ha costituito una critica radicale al capitalismo nato dalle ceneri della seconda guerra mondiale. Harvey, tuttavia, è soprattutto interessato anche a capire i risvolti economici, oggettivi della perdita di capacità progressiva del keynesismo. La crisi che irrompe sulla scena mondiale nel 1973 è considerata crisi di sovrapproduzione. Un punto di vista che mitigherà nel corso del tempo, allorché si confronta con quella «condizione postmoderna», dove il capitale cerca di rimodulare il rapporto tra spazio e tempo. Il capitale si dà una prospettiva globale, avviando un decentramento produttivo che arriva a coinvolgere aree geografiche del pianete fino ad allora collocate alla «periferia» del modo di produzione capitalistico. L’Asia, alcuni paesi dell’America latina diventano i luoghi privilegiati di tale rimodulazione dello spazio produttivo. Per fare questo, il fattore tempo diventa essenziale. La rete produttiva che viene costituita deve «annullare» le asincronie temporali di un processo lavorativo ormai mondiale. Da questo punto di vista, l’informatica e, come ha suggerito Sergio Bologna, la riorganizzazione della logistica sono essenziali. Ma se questa componente dell’analisi non determina grandi ripensamenti della teoria marxiana, l’ordine del discorso di Harvey sconta non poche difficoltà quando la sua attenzione si concentra sul «centro» del capitalismo, terremotato da una grande trasformazione antropologica che rende difficile utilizzare la cassetta degli attrezzi della tradizione marxiana. Per uscire dall’impasse, Harvey affronta il ruolo della finanza dell’accumulazione di capitale; il ruolo dello stato nella globalizzazione, l’emergere di processi lavorativi che non hanno la fabbrica come centro della produzione di valore.
Nella ricostruzione di un percorso teorico il rischio è di non riuscire a mettere a fuoco la costellazione teorica di riferimento. In Harvey sono evidenti gli influssi delle tesi di Giovanni Arrighi sulla natura obbligatoriamente globale del capitalismo contemporaneo, ma non mancano echi delle posizioni di Michel Foucalt sull’ordoliberismo e la biopolitica. Da questo punto di vista L’enigma del capitale (Feltrinelli) è il suo libro più sofferto. Concede molto al marxismo critico quando vede nella finanza non solo un elemento parassitario, improduttivo, bensì dinamico che consente al capitale di uscire dalle frequenti crisi in cui inciampa. Ed è evidente il richiamo alle tesi di Foucault sulla funzione pastorale dello Stato nel modellare e controllare i comportamenti sociali. Interessante è anche la sua rivisitazione dell’accumulazione originaria, che lo porta a distinguere tra accumulazione per espropriazione e accumulazione per sfruttamento. E se la prima forma gli consente di interpretare le nuove enclosures delle terre in America latina e Africa, nonché il ruolo della proprietà intellettuale nel garantire l’espropriazione del sapere sociale da parte delle imprese, l’accumulazione per sfruttamento così come la propone gli impedisce di fare i conti con le nuove forme di lavoro vivo emergenti dalla lunga trasformazione neoliberista.
Il capitale è migrante
È per questo rilevante il richiamo alla Comune di Parigi che egli fa in questo volume, interpretata non solo come il primo esempio di come il diritto alla città sia potenzialmente antagonista al capitalismo, ma anche come un’esperienza politica che ha visto protagoniste figure lavorative distanti dalla classe operaia della manifattura. Ma Parigi è anche il punto di avvio per esemplificare il circolo virtuoso, per il capitale, di quell’habitat sociale per reinvestire le eccedenze di prodotto e di denaro che la «normale» produzione e consumo di merci non riesce a «smaltire». Nella metropoli c’è dunque «distruzione creatrice», quando la gentrification caccia i «poveri» da una zona degradata per farne il luogo abitativo per i «ricchi». Oppure è il contesto in cui lo sprawl urbano può dispiegarsi dopo che sono stati rimossi vincoli ambientali, sociali. Le città possono però giungere al collasso. In questo caso, il circolo virtuoso può avvenire in altre città, nazioni. Così dopo l’ondata di ristrutturazioni urbane statunitensi, ci sono state quelle europee (Londra, di nuovo Parigi, Berlino, Barcellona), poi in quelle asiatiche, infine in quelle cinesi.
In Città ribelli compaiono tra le pagine tesi di Saskia Sassen sulle «città globali» o quelle di Mike Davis sulla privatizzazione dello spazio pubblico attraverso le città recintate, fino a vedere negli slums la manifestazione dell’apocalisse culturale e sociale di un modello di capitalismo che ha perso la sua forza propulsiva. E tuttavia Harvey si concentra su alcuni aspetti assenti nelle analisi di Davis e Sassen, cioè la produzione del comune. Lo dice senza mezzi termini che la metropoli e il lugo per eccellenza della produzione di merci, ma anche di quel comune che l’attuale modo di produzione rende produttivi. Per il geografo americano, la città è dunque il luogo dello «sfruttamento di secondo grado» – forti sono i richiami al secondo e terzo libro del Capitale di Marx, in particolare le parti dedicate al capitale fittizio e alla rendita fondiaria, intesi da Harvey come strumenti per superare la crisi . Il diritto alla città è sinonimo del conflitto contro questo tipo di sfruttamento. Non solo per il diritto all’abitare, ma perché il diritto di accesso al comune significa agire il conflitto contro le nuove enclosures sul sapere, la conoscenza, la salute, alla mobilità. Conflitti che vedono protagonisti precari e lavoratori informali, cioè quel precariato che la controrivoluzione neoliberista ha reso forma dominante nei rapporti tra capitale e lavoro.
L’assenza del politico
Con generoso ottimismo della ragione, Harvey descrive le rivolte in America Latina, in Europa, in Cina, a Los Angeles, New York come le tappe in cui la prospettiva comunarda si sta diffondendo. Ma si ritrae quando si manifestano contraddizioni e limiti di tale rivolte. L’assenza, ad esempio, in questo volume di una adeguata teoria dello stato è sinonimo di una altrettanto evidente mancanza di una teoria del politico. Sia ben chiaro: è un’assenza che qualcun altro teorico ha già colmato. Semmai è evidente che le sperimentazioni politiche che elenca – gli indignados, Occupy Wall Street, le rivolte di piazza Tahrir, o quelle più recenti di Istanbul e delle città brasiliane – hanno questo nodo da sciogliere. Che non è cosa da poco, perché nell’attuale contesto significa «produrre» una rinnovata teoria della rivoluzione che prenda congedo da quella che ha animato il lungo Novecento, senza però nulla concedere all’omeopatiche ricette politiche sollecitanti la salvaguardia del legame sociale.
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SCAFFALI
Un geografo sceso nei labirinti urbani
David Harvey è considerato uno dei più importanti geografi statunitensi. Rilevanti sono stati, negli anni Settanta del Novecento, suoi contributi per innovare lo statuto di questa disciplina, «contaminandola» con l’etnografia, le scienze sociali. È del 1973 il saggio «Explanation in Geography», dove presenta in maniera organica la sua proposta di «riforma» della geografia. Metodo di indagine che utilizza per «Social Justice and the City», libro che costituisce una punto di svolta nella sua produzione scientifica e che raccoglie anche le riflessioni sulla sua esperienza di consulente dell’amministrazione di Baltimora nei progetti di sviluppo urbano della città americana. Ama definirsi un «geografo marxista». E la gestione dello spazio e i processi di urbanizzazione fanno da sfondo ai libri «The Limits to Capital» e «The Urabanization of Capital». Negli anni Ottanta pubblica «L’esperienza urbana» (Il saggiatore), dove la città viene affrontata come il contraltare dello sviluppo capitalistico. Ma è con «Crisi della modernità» (Il Saggiatore) che David Harvey comincia ad essere indicato come un teorico marxista. Un libro, spesso, considerato espressione di una teoria del postmoderno: giudizio respinto dall’autore, che considera invece (alla stessa maniera di Frederic Jameson) il postmoderno l’ideologia contemporanea del capitalismo. Tra gli anni Novanta pubblica «Breve storia del neoliberismo» (Il saggiatore). Tieni dei seminari sul primo libro del capitale: i video del «corso» occupano per mesi la top ten dei video più visti attraverso Internet (I testi sono stati tradotti dalla casa editrice Casa Usher).
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ANTICIPAZIONI
David Harvey
L’urbanizzazione ha svolto un ruolo cruciale nell’assorbimento del surplus di capitale, agendo su una scala geografica sempre più vasta, ma al prezzo di violenti processi di distruzione creatrice che hanno espropriato le masse di ogni possibile diritto alla città. Questo processo sfocia periodicamente in grandi rivolte, come nel 1871 a Parigi, quando gli espropriati si sono sollevati per riprendersi la città che avevano perso. In modo analogo, i movimenti sociali urbani del 1968, da Parigi e Bangkok, da Città del Messico e Chicago hanno cercato di realizzare forme di vita urbana diverse da quelle imposte dai costruttori capitalisti e dallo stato. Se, come appare probabile, le difficoltà finanziarie dell’attuale congiuntura dovessero aggravarsi, ponendo fine, dopo decenni di trionfi, alla fase neoliberista, postmoderna e consumistica di assorbimento del surplus attraverso l’urbanizzazione, e se ne seguisse una crisi di proporzioni ancora maggiori, allora dovremmo domandarci: dov’è il nostro Sessantotto o, con ancora più forza, dov’è la nostra Comune? La risposta politica, riflettendo le trasformazioni del sistema fiscale, non può oggi che essere molto più complessa, nella misura in cui il processo urbano assume dimensioni globali ed è segnato da tutta una serie di crepe, incertezze e sviluppi geografici diseguali. Ma le crepe, come cantava Leonard Cohen, sono anche «ciò che lascia entrare la luce».
Segnali di rivolta sono ovunque (le agitazioni in Cina e India sono croniche, l’Africa è sconvolta da guerre civili, l’America Latina è in fermento, ovunque stanno emergendo movimenti autonomisti, e anche negli Stati Uniti alcuni indizi politici suggeriscono che la maggior parte della popolazione, di fronte a disuguaglianze sempre più feroci, inizia a pensare che «quando è troppo è troppo»). Ognuna di queste rivolte potrebbe diventare improvvisamente contagiosa. E tuttavia, a differenza del sistema finanziario, i movimenti sociali di opposizione, urbani e metropolitani, per quanto diffusi in tutto il mondo non sono davvero connessi. Anzi, molti non hanno nessun collegamento. È improbabile, quindi, che una singola scintilla scateni un incendio nella prateria, come sognavano un tempo i Weathermen. Ci vorrà qualcosa di molto più sistematico. Ma se questi vari movimenti di opposizione dovessero in qualche modo incontrarsi e coalizzarsi, per esempio, intorno alla parola d’ordine del diritto alla città, che cosa dovrebbero chiedere?
La risposta è abbastanza semplice: un maggiore controllo democratico sulla produzione e sull’uso del surplus. Dal momento che l’urbanizzazione rappresenta uno dei principali canali di assorbimento delle eccedenze, il diritto alla città consiste nell’instaurazione di un controllo democratico sull’utilizzo di tali eccedenze attraverso l’urbanizzazione. Avere un surplus di produzione non è un male, anzi, in molti casi è decisivo per una sopravvivenza accettabile. Nel corso dell’intera storia del capitalismo, una parte del plusvalore prodotto è stata prelevata dallo stato attraverso la tassazione, e nelle fasi di governo socialdemocratico la quota prelevata dallo stato è sensibilmente aumentata, collocando gran parte dell’eccedenza sotto il controllo statale. Il programma neoliberista dell’ultimo trentennio ha puntato a privatizzare il controllo del surplus. I dati mostrano però che in tutti i paesi Ocse la percentuale del prodotto complessivo in mano allo stato è rimasta sostanzialmente costante dagli anni settanta. Il risultato più importante dell’attacco neoliberista è stato quindi di impedire che la quota dello stato crescesse come negli anni Sessanta. Un’ulteriore innovazione è consistita nella creazione di nuovi sistemi di governance che integrino l’interesse pubblico e quello privato e, servendosi del potere finanziario, assicurino che il controllo sull’erogazione del surplus, esercitato dall’apparato statale, favorisca i grandi gruppi economici e le classi superiori nel dar forma al processo urbano. In definitiva, l’aumento della percentuale del surplus controllata dallo stato potrà avere effetti positivi solo se si riuscirà a riformare lo stato, riportandolo sotto un controllo popolare democratico.
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