LA BATTAGLIA FINALE
La sera siede a tavola con la pitonessa Santanchè e annuncia la crisi. La mattina siede sul divano con il barboncino Dudù e si rimangia tutto. Così non si può andare avanti. E dunque, a tre giorni da un 9 settembre italiano che la destra tinge con i colori dell’Apocalisse, è fatale che il presidente della Repubblica sia costretto a riscendere in campo. Per presidiare ancora una volta le istituzioni. E per inchiodare Berlusconi alle sue responsabilità. Non solo verso il governo, ma verso il Paese.
La nota diffusa da Giorgio Napolitano è un tentativo estremo, forse l’ultimo, per evitare una rottura finora solo possibile, ma a questo punto sempre più probabile. Il fatto stesso che il Capo dello Stato abbia dovuto compiere un atto politicamente così impegnativo conferma che stavolta l’allarme è eccezionale, perché la minaccia è reale. Il piano inclinato sul quale scivola il voto della Giunta del Senato (da lunedì prossimo convocata per dibattere sulla decadenza dell’ex premier) porta dritto alla caduta del governo. I segnali che filtrano, tra Arcore e Palazzo Grazioli, evocano scenari dirompenti. Come sempre, quando c’è da salvare il soldato Silvio.
Ministri del Pdl usati come scudi umani, che si dimettono o si autosospendono. Video-messaggi usati come armi improprie, che riecheggiano ed esasperano il grido di battaglia del 1994. Un clima di guerra, verrebbe da dire, se non suonasse blasfemo l’uso di una parola purtroppo più adatta alla tragedia siriana che non alla tragicommedia italiana. Eppure, proprio nelle ore in cui a San Pietroburgo il premier Letta è impegnato a decidere con Obama e Putin i destini del Medioriente, a Villa San Martino l’ex premier Berlusconi è impegnato a cannoneggiare l’esecutivo e a sabotare la maggioranza. Un enorme danno d’immagine per l’Italia.
Il Quirinale ribadisce e rilancia tre messaggi-chiave. Riflette un principio di necessità: a questo governo non c’è alternativa, è forte anche solo per questo e per questo il Colle non prende neanche in esame altre subordinate, né il Letta bis né un governo istituzionale con un’altra maggioranza né, meno che mai, le elezioni anticipate. Riflette il principio di realtà: aprire una crisi adesso precipiterebbe il Paese «in gravissimi rischi», come hanno ampiamente dimostrato le reazioni nervose dei mercati e degli organismi internazionali di fronte alla nostra instabilità interna. Riflette il principio di responsabilità: il Cavaliere ha subito una condanna definitiva, le sentenze vanno non solo rispettate ma anche eseguite, la giustizia deve fare il suo corso senza che le altre istituzioni subiscano “ritorsioni” per questo. Dunque è inutile continuare a scaricare su altri la responsabilità di quanto accade. È inutile continuare a pretendere che la presidenza della Repubblica compia d’ufficio un impensabile gesto di clemenza. È inutile continuare ad esigere un salvacondotto dal Parlamento, addossando sul Pd la colpa eventuale di averlo negato, e per questo di aver “ucciso” il governo.
Napolitano si rivolge direttamente ed esclusivamente a Berlusconi. È lui, ormai, l’unico che deve prendere atto dell’epilogo, per quanto amaro e doloroso, della sua «Storia italiana». È lui, ormai, l’unico che deve saper scindere i suoi destini personali da quelli del governo, della destra e perfino del Paese. È lui, ormai, l’unico che deve accettare i fatti e rinunciare ai ricatti, rompendo una volta per tutte il legame incestuoso tra vicenda processuale e interesse nazionale. È lui, infine, che deve dimostrarsi almeno per una volta coerente, rinunciando a staccare la spina a un esecutivo che ha più volte detto di aver voluto e di aver fatto nascere. Se non lo farà, sarà a lui e non ad altri che i cittadini-elettori chiederanno conto, di fronte a una crisi al buio che può portare l’Italia all’ingovernabilità e lo spread a quota 500.
Il Capo dello Stato fa un ultimo sforzo per far ragionare lo Statista di Arcore. «Conserva fiducia» nelle ripetute dichiarazioni di Berlusconi a sostegno della Grande Coalizione. Una formula ardita, viste le prove rovinose fornite dal Cavaliere in quasi vent’anni di avventurismo politico, imprenditoriale e persino esistenziale. Infatti le prime risposte che arrivano dalla corte di Arcore sono purtroppo disarmanti, e al tempo stesso inquietanti. Basta leggere Sandro Bondi, per rendersene conto. Il bardo della corte di Arcore ricalca per filo e per segno il testo di Napolitano, per sbattergli in faccia il guanto di sfida al quale la destra sembra ormai ineluttabilmente votata. Il Pdl non solo non accoglie gli inviti del Capo dello Stato, ma «confida» a sua volta in lui perché «non ignori la drammaticità della situazione, e prenda seriamente in esame un provvedimento esaustivo che le sue prerogative gli consentono di assumere nell’interesse dell’Italia». Un provvedimento «che scongiuri gli effetti di una sentenza allucinante».
Siamo, ancora una volta, al “berlusconismo da combattimento”, che non si limita a respingere l’appello del Quirinale. Glielo ritorce contro, chiedendo ancora una volta al presidente della Repubblica di osare l’inosabile. Di violare la Costituzione e i suoi principi. Di rinunciare alla forza del diritto in nome di un impensabile “diritto della forza”. È una “grazia tombale”, che il Cavaliere esige ancora dal Capo dello Stato. Che lo mondi da tutti i suoi reati, e lo restituisca integro a un sistema politico e giuridico “violentato” e snaturato per sempre. Se questi sono i presupposti sui quali si combatterà la battaglia finale, è fin troppo facile prevederne i prossimi sviluppi. Si profila un conflitto istituzionale senza precedenti, che vede il Cavaliere e le sue truppe all’attacco forsennato e disperato di Napolitano. Un attacco che inizia oggi, visto che nella mente distorta di Berlusconi c’è ancora incistata l’idea folle di un “motu proprio” del Colle sulla grazia. E che proseguirà domani, visto che se si apre una crisi il Cavaliere userà qualunque arma possibile per estorcere al Colle lo scioglimento delle Camere e il voto anticipato.
È uno scenario da incubo. Un finale da Caimano. Ma per questo è preziosa la resistenza del Quirinale. E lo sarà anche quella del Pd. La posta in gioco è troppo alta, e va ben al di là della banale contesa tra garantismo e giustizialismo, o tra riformismo e anti-berlusconismo. Un Lodo Violante. ammesso che esista o sia mai esistito, fa presto a diventare un altro Lodo Alfano. Quel tempo è passato. Non può e non deve tornare.
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