LA BATTAGLIA DELL’ILVA

by Sergio Segio | 10 Settembre 2013 5:36

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Gli operai protestarono: i treni compiono percorsi lunghi e accidentati, un malore o un incidente lasciano senza soccorso. Nell’ottobre 2012 Claudio Marsella, 29 anni, morì schiacciato, agganciando due vagoni. I suoi compagni scioperarono a lungo. Zanframundo era suo amico fraterno, non riusciva più a lavorare e vivere come prima. Momenti di panico, febbre improvvisa, pressione alta, si rifugiava in infermeria. Chiedeva, con gli altri, di rivedere quella norma, mise in rete un filmato che documentava l’insicurezza. E chiedeva di cambiare lavorazione. Intanto il suo caporeparto, indagato per la morte di Marsella, era promosso capoarea. In 11 anni Zanframundo non aveva ricevuto un rapporto: ora, in 50 giorni, ne ha ricevuti 8. Il terzo con lo stesso addebito gli è valso il licenziamento, venerdì. Di quei 50 giorni ne aveva lavorati 20, per il resto era in malattia. Nell’ultima visita era scoppiato in lacrime, e vedere un uomo come lui piangere impressionò il medico: ti conosco da una vita, gli disse, riposati, curati, e quando tornerai ti aiuterò a cambiare reparto. Si è curato, di farmaci e di assistenza psicologica, ed è rientrato: in tempo per il licenziamento. Non rispettava le norme di sicurezza. Lo stesso giorno in cui Procura e Gip hanno ordinato i primi cinque arresti dei “fiduciari”: i lettori ricorderanno questa strampalata denominazione della rete “ombra” di dirigenti e capi che i Riva avevano messo a comandare l’Ilva, veterani di Brescia o di Bergamo, una gerarchia coloniale che esercitava il potere senza esistere ufficialmente. “Associazione a delinquere”. Un esposto contro quella struttura “clandestina” e prepotente, già indagata, era stato presentato dal segretario dell’Usb, Rizzo, e i suoi compagni della Mof. Perfino il nuovo direttore dell’Ilva, Lupoli, deve aver parlato chiaro sulla gerarchia occulta, umiliante anche per i dirigenti che hanno nome e cognome – e con i loro nomi vanno in galera. Ora gli operai sono lì, sul tetto, e con loro gli edili della Emmerre, una ditta prestigiosa per il lavoro più brutto e qualificato, rimontare a mano i refrattari in batteria: mansione decisiva per ridurre le emissioni, e per l’Autorizzazione integrata ambientale che attende. Era un loro compagno un altro morto sul lavoro, Ciro Moccia. Nella causa per lui la Emmerre ha nominato un avvocato di fiducia. E ora è fuori, in 50.
I lavoratori “liberi e pensanti” hanno solidarizzato con lo sciopero, come i Cobas. I sindacati confederali no. La Fiom è sull’orlo di una crisi di nervi. Dal centro si tirano le briglie, i delegati mordono il freno. Bondi dice che il problema è di passare dalla quantità alla qualità: vuol dire il tonnellaggio, forse, gli operai fanno presto a capire la quantità di posti di lavoro. “Tagli drastici”, si dice a bassa voce nei sindacati, 4, 5 mila: intanto quel Zanframundo. Si aspetta il piano, a novembre. Come sugli alberi le foglie, sui tetti gli operai.

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