Italia all’esame del Fondo Monetario test sulle banche e allarme deficit

by Sergio Segio | 22 Settembre 2013 8:25

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ROMA — Domani all’Fmi, Christine Lagarde presiederà una discussione che rischia rivelarsi tra le più spinose degli ultimi tempi. Il consiglio del Fondo parla di una grande economia del pianeta, l’Italia. E sul tavolo dei 24 direttori esecutivi, ciascuno in rappresentanza di uno o di un gruppo di paesi, saranno squadernati due documenti pronti per essere pubblicati. Il primo, il cosiddetto “article 4 report”, si concentra sullo stato generale dell’economia italiana. Ma sarà probabilmente il secondo ad impegnare di più quel piccolo parlamento della economia globale che è il consiglio dell’Fmi, perché sarà dedicato alle banche: è il “Financial sector assessment program”, un quadro d’insieme della tenuta del settore finanziario nel paese.
Sono entrambi rapporti tecnici dello staff, sui quali i rappresentanti dei governi in teoria non possono nulla. Ma ancora prima che la discussione inizi, nessuno è in dubbio sulla posta in gioco. Si parlerà del maggiore paese europeo colpito dalla crisi, il terzo più grande debitore al mondo, il solo governo di rilievo ad attraversare anni di choc sui mercati senza chiedere aiuti vincolati a un piano di riforme. L’Italia è il solo paese in profonda recessione ad aver tenuto le mani libere, dunque anche una dose di imprevedibilità sulle prossime mosse. Facile capire perché quei rapporti dell’Fmi stiano diventando un termometro della fiducia che il paese riscuote nel mondo.
Finora non è emerso quasi niente dei contenuti, se non una certa atmosfera di diffidenza. Prima ancora che uscissero le ultime stime del governo, l’Fmi aveva già scritto nelle bozze dell’“article 4” che il deficit avrebbe superato il 3% del Pil. Secondo il Fondo quest’anno il disavanzo sta salendo fra il 3,1% e il 3,2%, più o meno come riconosciuto anche dal Tesoro. Già per l’anno prossimo invece si registra la prima divergenza, perché l’Fmi è più pessimista. Il rapporto dello staff di Washington, redatto dall’americano Kenneth Kang, indica che anche nel 2014 il deficit dell’Italia dovrebbe superare il limite europeo del 3% del Pil; il governo invece mette in programma un indebitamento al 2,5%.
Non è difficile capire perché Washington e Roma vedano la dinamica dei conti pubblici in modo diverso. In primo luogo, l’Fmi conta su un andamento del Pil nel 2013 e 2014 un po’ peggiore di quello previsto dal governo. Dunque meno entrate e più spesa pubblica. L’altra incomprensione riguarda poi l’Imu, o meglio il prelievo sulla prima casa abolito a inizio mese.
Il governo ha fatto sapere che sarà sostituito nel 2014 da una “service tax”, un’imposta comunale sui servizi, ma l’Fmi non ne tiene conto: per gli economisti di Washington, non esiste alcuna nuova entrata almeno finché non ci saranno dettagli precisi e misurabili
sulla futura tassa.
Non è dunque in un clima di comprensione reciproca che arriva l’altro rapporto, quello sulla stabilità finanziaria. Il capo missione su questo fronte è Dimitri Demekas, un economista greco dotato di sito web personale, formatosi a New York ma capace di parlare un buon italiano. Demekas aveva il compito più difficile, perché spettava a lui valutare i danni che un crollo del Pil dall’8,9% dal 2008 ad oggi ha lasciato nei bilanci delle banche. Il suo punto di partenza è stato l’ultimo bollettino statistico della Banca d’Italia; secondo quel documento a marzo di quest’anno gli istituti avevano in bilancio 248 miliardi di euro di crediti deteriorati. A questo valore si arriva sommando quelle che Bankitalia definisce le varie “categorie di default”: sofferenze, incagli, esposizioni ristrutturate e scadute o sconfinanti.
È difficile prevedere le perdite effettive nei bilanci delle banche che Demekas stima sulla base di quei 248 miliardi, un valore che da marzo a oggi è senz’altro salito. Dipenderà molto dai (robusti) accantonamenti già fatti dalle grandi banche su spinta di Bankitalia, dalla loro capacità di vendere gli immobili pignorati ora che il mercato del mattone è in calo; ma soprattutto, dipenderà dalla fiducia di fondo dell’Fmi verso l’Italia, le sue istituzioni e la sua capacità di agganciare la ripresa.
Quel rapporto e il Global Financial Stability Report di ottobre diventano così la misura di quanto l’Fmi crede davvero alla tenuta del paese. Sei mesi fa le banche ricevettero dal Fondo un disco verde, non senza sfumature di giallo. Ora se l’Fmi indicasse (a torto o a ragione) che il buco nelle banche è molto ampio, qualcuno penserebbe alla Spagna. Per anni Madrid raccontò che i suoi istituti erano solidi, fino a quando chiese un prestito europeo per ricapitalizzarli. In contropartita, la Spagna si impegnò a cambiare le regole del mondo del lavoro, ha messo mano alla pubblica amministrazione e ora sta recuperando capacità di competere nel mondo. Proprio ciò che, a credere all’Fmi, l’Italia non riesce a fare.

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