Innovazione partecipata

by Sergio Segio | 26 Settembre 2013 7:28

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Forse andrebbe detto a Michael Bloomberg, sindaco di New York, ciò che sta per accadere a Bolzano, da oggi a sabato 28 settembre, in occasione della seconda edizione dell’Innovation Festival. Perché la recente chiamata ai progetti da condividere dal basso da parte del primo cittadino newyorchese per migliorare le città europee (premio da 5 milioni di euro per le idee più innovative), starebbe bene tra queste «ampie vedute: montagna, società e tecnologie», sottotitolo della tre giorni bolzanina, a cura di Tis Innovation Park. La capitale dell’Alto Adige come le città di Londra, New York o Singapore? «E perché no», risponde Carlo Ratti, architetto e ingegnere, ospite e relatore all’Innovation Festival, il quale aggiunge che «se in passato l’idea di clonare Silicon Valley in un’altra realtà si è spesso rivelata un fallimento, oggi, nella Silicon Roundabout di Londra, o nella Tau di Tel Aviv, tutto è possibile».
E allora, se la fame di futuro è la stessa anche a Bolzano, non c’è problema. Qualcuno è andato persino a misurarla questa fame di futuro. Sabato 28, al Museion(tra le undici location dell’evento), verrà presentato il progetto «Collective Mind Game» più proiezione video. «Abbiamo inviato alcuni intervistatori armati di iPad in montagna, sulle malghe, per chiedere alla gente del posto quale fosse la loro percezione del futuro; e le risposte, in questo pezzo importante d’Europa, non si sono discostate tanto da chi vive nelle grandi metropoli, anzi, sono risultate in un certo senso più autentiche», spiega Gianluigi Ricuperati, scrittore e direttore di Domus Academy, a Milano. Con lui, anche Stefano Boeri, architetto e politico, per il quale «la politica è innovazione». Tutto questo, però, senza «una nuova economia della condivisione», come Carlo Ratti definisce il suo progetto destinato alla città di Singapore — praticamente un esempio di innovazione partecipata — non avrebbe senso. Per il direttore del Senseable City Lab, del Massachusetts Institute of Technology di Boston, è fondamentale possedere una piattaforma che gestisca i dati per la digitalizzazione delle nostre città. «Con Life Singapore abbiamo la possibilità di vedere in tempo reale ciò che accade in città», spiega il progettista torinese, invitato questo sabato a dire la sua «sulle implicazioni che ha la fusione tra società e big data».
E per spiegarlo, Ratti si rifà a un libro di Italo Calvino, «La memoria del mondo», metafora dell’impossibilità di immagazzinare tutto il sapere. «Se prendessimo la storia dell’umanità da duemila anni fa a oggi, avremmo la stessa quantità di dati raccolti nelle ultime quarantotto ore», spiega. Ma non per la qualità e il valore etico. Batte sul medesimo tasto dell’innovazione consapevole e democratica il critico d’arte Philippe Daverio, protagonista domani pomeriggio, alla Libera università di Bolzano, di «Pensato e disegnato per tutti»: un modo per avvicinare bambini, anziani e disabili alla percezione estetica e turistica della montagna attraverso il design inclusivo. È innovazione che parte dal basso e parla alla gente, quella di Jessica Jackley, fondatrice di Kiva, la prima piattaforma online al mondo che promuove azioni di microcredito per Paesi emergenti e in via di sviluppo, o per le piccole imprese degli Stati Uniti. Potrebbe funzionare da noi, in Alto Adige? Lo scopriremo venerdì alla Casa della cultura. Da queste parti non temono di confrontarsi con Francoforte e Mumbai, realtà apparentemente lontane, ma tutte e tre stimolate dal desiderio di pianificare grandi progetti coinvolgendo la popolazione. Eva Maria Börschlein, del Guggenheim Lab Bmw di Monaco, sabato ricorderà come le grandi opere non sono sempre uno spreco di denaro. Ne sa qualcosa Konrad Bergmeister, amministratore delegato della Galleria di base del Brennero, invitato alla stessa tavola rotonda. Possono essere nuovi modelli partecipativi contro la crisi, le startup presentate all’Innovation festival con Italia Camp. Al palais Campofranco, nella centralissima piazza Walther, Hitendra Patel, coordinatore del programma innovazione della Hult International Business School di Boston, è invitato a spiegare l’importanza sociale delle startup, nate in modo semplice.
Magari in uno dei quei celebri garage. «Che poi tanto garage non sono, direi piuttosto dei capannoni», chiarisce Carlo Ratti, detentore di una serie infinita di brevetti, al quale l’ironia non manca. Soprattutto quando si tratta di spiegare una startup che potrebbe cambiare la vita delle persone, la «Ruota di Copenaghen». «In pratica, possiamo trasformare qualsiasi tipo di bici in una vettura ibrida: se siamo stanchi, grazie a un computerino riusciamo a scollinare senza problemi; ma la cosa più importante è che i ciclisti possano scambiarsi dati sulla città e collegarsi tra di loro», conclude Ratti, convinto assertore dell’architettura «open source», composta da un terzo di design, dalla tecnologia e da una buona dose di umanesimo. Un perfetto esempio di innovazione partecipata. Se a Bolzano funzionerebbe? Può darsi. Ma se ci riferiamo alla startup della Ruota di Copenaghen, i poco più che ventenni potrebbero tranquillamente farne a meno. Loro sono la «Generazione 89», nata subito dopo la caduta del Muro di Berlino e i primi balbettii di un mondo iperconnesso. Ce lo ricorda l’architetto Italo Rota, stamane dalle 11.30, alla Libera università, relatore di «89 Plus: The Diamond Generation». L’inizio dell’innovazione partecipata.

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