by Sergio Segio | 28 Settembre 2013 7:58
Quando, nel 1947, l’Assemblea costituente stava discutendo sull’articolo 9 della somma Carta che riguarda la tutela del paesaggio, i giornali umoristici dell’epoca, non propriamente progressisti, andarono a nozze nell’ironizzare pesantemente, in malafede o incoscienti, su quel che significava quell’argomento focale per la vita di un Paese come il nostro. «Il Travaso» e poi «Candido» e «L’uomo qualunque» non lesinarono gli scherni, scrissero di ovvietà e di stupidità, come se la norma fosse una bizzarria degli uomini politici di allora. Basterebbero due film d’autore, Le mani sulla città di Francesco Rosi e Il ladro di bambini di Gianni Amelio, se non esistessero le ragioni della Storia, della Cultura e della Politica pulita a mostrare quel che è successo dopo e far capire com’era essenziale nell’Italia distrutta dalla guerra l’articolo 9 della Costituzione. Anche oggi non ha perso nulla della sua attualità.
Quattro autori — Alice Leone, storica; Paolo Maddalena, giurista; Tomaso Montanari, storico dell’arte; Salvatore Settis, archeologo, già direttore della Normale di Pisa, presidente del consiglio scientifico del Louvre — hanno firmato insieme un libro polemico e documentato, Costituzione incompiuta. Arte, paesaggio, ambiente, pubblicato da Einaudi (pagine 185, 16,50) che mette intelligentemente il dito sulle piaghe tormentose che seguitano a dilaniare un Paese disastrato, moralmente e materialmente, com’è l’Italia di oggi. Un libro che riesce a fondere la memoria di quel che accadde nel passato, con il presente e il futuro da ricostruire dopo il ventennio berlusconiano segnato dallo slogan «ognuno è padrone in casa propria».
Non era un’elegante astrazione intellettuale discutere quasi settant’anni fa del paesaggio e dell’arte come un fatto pubblico. Non fu, come scrive Alice Leone, né semplice né lineare, arrivare alla dizione dell’articolo 9. Rivolgimenti, mediazioni, scontri accesi, polemiche fuori e dentro gli schieramenti videro infatti contrapporsi interessi e scuole di pensiero. Non fu facile arrivare alla dizione definitiva: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione».
Racconta Salvatore Settis, con amara nostalgia, che ci fu in Italia un tempo in cui la direzione generale delle Antichità e belle arti del ministero della pubblica istruzione poteva essere affidata a un uomo come Ranuccio Bianchi Bandinelli, «massimo archeologo italiano del Novecento e vigile coscienza della cultura europea»: la tutela delle bellezze naturali non può essere disgiunta da quella delle antichità e belle arti e deve essere sottoposta alla medesima regolamentazione legislativa, era il suo pensiero.
Sembra inimmaginabile un’idea così netta nella società dei consumi di oggi dove anche i beni culturali devono essere strumenti di «valorizzazione economica», dove — come documenta Paolo Maddalena — quei beni, violando la legge, sono diventati soltanto merce; dove trionfa la religione del privato; dove si costruisce senza vergogna, contro la volontà popolare, con l’avallo della Soprintendenza, un immenso parcheggio sotto e tutt’intorno alla più importante basilica milanese, Sant’Ambrogio; dove i prestiti selvaggi di delicatissime opere d’arte sono la regola, esportate all’estero come gingilli, utili più che altro a funzionari per i loro traffici di potere. (Pazienti viaggiatori hanno tentato più volte, per esempio, di vedere a Mazara del Vallo il meraviglioso Satiro danzante, sempre in trasferta come tanti altri capolavori, e hanno potuto esaudire il loro desiderio soltanto a un’esposizione alla Royal Academy di Londra dove il bronzo era ospite d’onore).
L’articolo 9 della Costituzione non nacque dal nulla. Il dopoguerra fu un momento fervido di riscatto e di comune visione del mondo di uomini e donne di diverse fedi e culture, dai liberali di gran nome come Benedetto Croce e Luigi Einaudi, al socialista Pietro Nenni, ai comunisti Togliatti e Concetto Marchesi al democristiano Aldo Moro all’azionista Piero Calamandrei che ebbero un ruolo essenziale nella stesura della Carta. La legge Croce del 1922 e la legge Bottai del 1939 furono il punto di partenza dei costituenti.
Tomaso Montanari spiega con chiarezza la sostanza dell’articolo 9: se la sovranità appartiene al popolo, com’è scritto nell’articolo 1, «anche il patrimonio storico e artistico appartiene al popolo. E la Repubblica tutela il patrimonio innanzitutto per rappresentare e celebrare il nuovo sovrano cui il patrimonio ora appartiene: il popolo».
Fu Concetto Marchesi, il grande latinista, a sostenere con energia la necessità di quell’articolo, voluto e difeso da costituenti di spicco. E fu Tristano Codignola a proporre con forza la parola «tutela», più completa della parola «protezione».
Che cos’è il patrimonio storico e artistico secondo gli autori del libro? «Non è la somma amministrativa dei musei, delle singole opere, dei monumenti, ma è una guaina continua che aderisce al paesaggio — cioè al territorio “della Nazione” — come la pelle alla carne di un corpo vivo».
Il libro (manca un indispensabile indice dei nomi) imposta un’infinità di problemi: la funzione delle Soprintendenze: Montanari propone una sorta di magistratura del patrimonio indipendente dalla politica; il perenne conflitto tra lo Stato e le Regioni competenti in materia urbanistica (un errore fatale dei costituenti); il consumo del suolo: l’8,1 per cento della superficie nazionale è coperta da costruzioni, la media europea è del 4,3 per cento. Dopo ogni terremoto, alluvione, disastro si piange (non per molto).
Chi deve provvedere, chi deve controllare i controllori? Lo Stato siamo noi, amava dire Calamandrei. E Bianchi Bandinelli: «Noi siamo, davanti al mondo, i custodi del più grande patrimonio artistico, che appartiene, come fatto spirituale, alla civiltà del mondo».
Ce ne siamo dimenticati. Spaesati tra Imu e Iva.
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