by Sergio Segio | 18 Settembre 2013 8:24
E il 19 ottobre quando la Corte d’appello fisserà la durata dell’interdizione dai pubblici uffici, da uno a tre anni. Solo quella forza emetterà parole in sintonia con gli atti. Vociante, ma in sostanza afona, la politica starà forse a guardare. Come sempre.
Se la politica perpetuerà l’inerzia, non resterà che lo scadenzario giudiziario, a disintossicare le istituzioni da chi ha frodato o corrotto. Assieme alla stampa indipendente, che però non è un potere dello Stato, la magistratura s’erge come torre eremitica, attorniata dal vasto deserto che è la politica. Quest’ultima si sarà nervosamente agitata, avrà senza fine gesticolato, prima a viso scoperto in Giunta, poi a viso coperto in aula, ma senza costrutto. Avrà abdicato, scrive Vladimiro Zagrebelsky in un magistrale articolo: avrà «trasferito potere e responsabilità ai giudici, salvo poi aggredirli per le conseguenze che ne derivano» (La Stampa, 11 settembre).
La vera patologia italiana è questa, ed è antica. È da quasi trent’anni (il pool antimafia nacque nell’84, sette anni prima di Mani Pulite) che la politica mostra di non possedere gli anticorpi necessari a espellere le sue cellule malate. O meglio non vuole attivarli: cocciuta, imperterrita. Sylos Labini spiegò bene, il 14 maggio 2002 su questo giornale, la natura del morbo. Lo chiamò immunodeficienza acquisita: «Il grado di civiltà di un paese, come lo stato di salute di una persona, dipende in primo luogo dagli anticorpi: quando diventano insufficienti, compare l’Aids». Aggiunse che «lo sviluppo del capitalismo moderno è sostenibile solo nel rispetto di regole severe», e che una democrazia muore se con tutte le sue componenti (giustizia, libera informazione, separazione dei poteri) non dà vita a un sistema di anticorpi.
Il fascino della melma. Difficile descrivere altrimenti la politica italiana, se ancor oggi i costumi sono quelli di trent’anni fa: incapacità di ripulire le proprie stanze prima che intervenga la mano del guardiano della legge (magistrato, polizia), e con perentorietà cogente spazzi i pavimenti, chiuda le porte da chiudere. È un’incapacità che i parlamentari rischiano di reiterare: e non tanto quelli che oggi voteranno nella Giunta delle immunità sulla decadenza di Berlusconi, ma soprattutto i senatori che sanciranno o no, in seduta plenaria, non visti, i decreti della Giunta.
La legge Severino è chiarissima, e più dura ancora delle imminenti decisioni giudiziarie: la decadenza dei condannati s’applica immediatamente, e non sarà «inferiore a sei anni, anche in assenza della pena accessoria » (interdizione). Proprio per questo si cincischia, ci si acquatta. Immobilizzare le larghe intese è il pensiero fisso di gran parte dei politici (Quirinale in testa): talmente fisso, totalizzante, che il ricordo del reato si perde per strada, con i precetti della legge Severino. Per questo sarebbe cosa buona se la politica agisse non solo presto, ma con voto palese. Non è astrusa la richiesta di 5 Stelle, dopo il tradimento dei 101 parlamentari Pd che hanno demolito Prodi.
Il disfacimento raggiunge l’acme quando si parla di grazia, o di commutazione della pena da detentiva a pecuniaria (solo il politico straricco può permetterselo). Tutto si confonde ed evapora, il delitto per primo, quando le parole vengono distorte dagli eufemismi che addolciscono il reale, o dai disfemismi che lo intenebrano: quando al posto di impunità si dice agibilità, o quando la giustizia è chiamata plotone di esecuzione.
Daranno un altro nome anche alla grazia. La ribattezzeranno chissà come: stabilità, responsabilità, prudenza. Apparirà saggezza, graziare un pregiudicato che lasci il Senato prima che il Parlamento si pronunci. Senza ammettere alcunché, il frodatore sarà incensato come nobile e statista.
Poco importa a quel punto la domanda che ci rimarrà in mano, pacchetto mai spedito. Perché la grazia, se il reato è grave e il condannato s’ostina a negarlo, ritenendolo nient’altro che frutto di nefasti conflitti tra magistrati e politica? Come giustificare una clemenza verso chi ha non solo evaso il fisco ma corrotto magistrati (come è stato definitivamente sancito ieri dalla sentenza della Cassazione per il lodo Mondadori), e figura come uomo sospettato di scalare il potere prezzolando parlamentari? Il senatore De Gregorio ha ammesso di aver ricevuto da Berlusconi 3 milioni di euro (2 in nero) per passare dall’Idv alla destra e accelerare la caduta del governo Prodi nel 2008. In nome di che concedere la grazia, se non per premiare l’abdicazione della politica schermandola da poteri terzi?
La melma persistente ha i suoi vantaggi. Lasciare che siano i giudici e non il Parlamento sovrano a estromettere il condannato accolla alla magistratura l’intera, indivisa responsabilità. O meglio la colpa, secondo Vladimiro Zagrebelsky: «Il golpe giudiziario sarebbe denunziato, la soggezione della politica alla magistratura sarebbe lamentata (ad alta o a bassa voce, con lo stile di ciascuno), la Politica si terrebbe al riparo».
Il partito-Mediaset si propone precisamente questo, da quando nacque vent’anni fa: oggi urge salvare il soldato Berlusconi, ma lo scopo perseguito dal ’93 è creare le basi di un’altra politica, finalmente messa al riparo da controlli esterni. Stabilità e governabilità, anelate dagli anni ’70, furono nei ’90 idoli di Forza Italia. Di qui l’assalto a una Costituzione ricca di anticorpi, troppo influenzata dalla Resistenza: «dalle temperie della guerra fredda», è scritto nella relazione introduttiva – firmata il 10 giugno da Letta, Quagliarello, Franceschini – alla legge sulla revisione della Carta. Non si tratta solo di neutralizzare la separazione tra potere esecutivo, legislativo, giudiziario. Si tratta di scaricare ogni onere sulla magistratura: in modo che sempre si sovraesponga, ma in solitudine; e più facilmente sia tramutabile in vittima espiatoria. I veri giustizialisti sono i demiurghi di questa strategia del ragno, che avviluppa la preda esaltandone il ruolo minaccioso.
Paolo Borsellino vide questo pericolo con disperata lucidità, quando operava nell’antimafia a Palermo. Quattro anni dopo l’istituzione del pool, il 26 gennaio ’89 a Bassano del Grappa, indicò la patologia di una politica che non si emenda mai, a meno di non esser trascinata in giudizio: «Vi è stata una delega totale e inammissibile nei confronti della magistratura e delle forze dell’ordine a occuparsi esse solo del problema della mafia. C’è un equivoco di fondo. Si dice che il politico che ha avuto frequentazioni mafiose, se non viene giudicato colpevole dalla magistratura è un uomo onesto. No! La magistratura può fare solo accertamenti di carattere giudiziale. Le istituzioni hanno il dovere di estromettere gli uomini politici vicini alla mafia, per essere oneste e apparire tali». Se il politico non sa giudicare se stesso, è «perché si nasconde dietro lo schermo della sentenza».
Siamo ancora a quel bivio, nonostante il sacrificio o l’onestà testarda di tanti servitori dello Stato. Il politico restio a giudicare se stesso non disdegna il primato dei calendari giudiziari: così può continuare a fingersi eletto del popolo senza accusare il Parlamento sovrano. Somiglia – tutti noi somigliamo – all’uomo di campagna di Kafka, appostato davanti alla porta della Legge. Per anni il guardiano gli nega l’accesso; anche se fa capire che potrebbe entrare, se davvero volesse. Poco prima di morire, con un filo di voce, l’uomo chiede perché nessuno, all’infuori di lui, ha tentato in tanti anni di farsi strada. Il guardiano urla, per farsi sentire dal morente: «Nessun altro poteva ottenere di entrare da questa porta. A te solo era riservato l’ingresso. Adesso vado e la chiudo».
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