by Sergio Segio | 7 Settembre 2013 6:23
Ci si deve tuttavia chiedere come mai il presidente cerca con insistenza il benestare del Congresso, pratica non usuale nella tradizione americana. È vero che la Costituzione attribuisce al Congresso il potere di «dichiarare la guerra» e di «stabilire le norme per gli interventi militari» (art.1), mentre il presidente è solo «il comandante in capo delle forze armate» (art.2), ma nella pratica politica del dopoguerra il potere presidenziale in materia militare ha quasi sempre prevalso sulle prerogative del Congresso. Così è stato con il via libera di J. F. Kennedy alla spedizione su Cuba preparata sotto Eisenhower, l’escalation di Lyndon Johnson in Vietnam giustificata con l’incidente del Golfo del Tonchino, fino a G. W. Bush che ha fatto ricorso alla formale dichiarazione di «guerra al terrorismo» per avere mano libera in Iraq. Ma l’attuale rivincita del Congresso rispetto alla presidenza in materia estera e militare non è dovuta tanto al richiamo costituzionale, quanto a motivazioni riconducibili al consenso democratico. Gli americani sono in maggioranza contrari all’intervento militare: il decennio post Torri gemelle ha generato un insostenibile aumento della spesa pubblica, ha contribuito alla crisi economica, ed è costato un alto prezzo di sangue per decine di migliaia di giovani. Malgrado ciò, il ruolo degli Stati Uniti come garante dell’ordine mondiale si è andato progressivamente offuscando, ed è radicalmente mutata la scala delle priorità internazionali. All’interno gli americani non si percepiscono più come i guardiani della libertà nella Guerra fredda, né come gli alfieri della guerra al terrorismo per «esportare la democrazia» secondo i moduli bushiani. Viceversa, indirizzano i loro interessi prevalenti verso la ripresa, l’occupazione e le disuguaglianze sociali. Ancor più del passato, i concreti risultati economici prevalgono sulla visione che gli Stati Uniti devono avere nel mondo. Ed è proprio sulla base di tali interessi nazionali che oggi si orientano i membri del Congresso, molto più sensibili agli umori dell’elettorato che non alle direttive di partito. Questa è la democrazia americana, una democrazia appunto non solo per definizione teorica, ma in particolare per il nesso diretto tra eletti ed elettori (come del resto si è visto anche nel Parlamento inglese con la sfiducia al premier David Cameron). I membri della Camera e del Senato sanno cosa vogliono le constituency a cui i Rappresentanti devono rispondere ogni due anni e i Senatori ogni sei. Obama, pur lontano da mire egemoniche internazionali, è costretto a tenere fede a quella «linea rossa» sull’uso dei gas che ha affrettatamente proclamato quale elemento decisivo per l’intervento in Siria. Si sente inoltre il supremo depositario del ruolo e dell’immagine che ancora oggi la superpotenza americana esercita sull’intero globo con la forza economica e militare di cui dispone. Diversamente dai congressmen che devono fare i conti con la democrazia elettorale, il presidente è meno vincolato dall’opinione pubblica non dovendo più chiedere i voti per la terza rielezione. Nelle democrazie anglosassoni, ancora una volta, il consenso costituisce il collante degli equilibri tra i poteri costituzionali, la chiave di volta per comprendere quello che accade negli Stati Uniti tra il presidente Obama e la controparte parlamentare.
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