IL CANNONE IN CIMA ALL’ORTLES

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MONTE CEVEDALE. Tuona una valanga di ghiaccio e pietre, mille metri più in basso, e noi si sale per la cresta che va al Vioz, m. 3535, il rifugio più pazzo del Trentino. Lo costruirono anteguerra le guide di Peio per portare alpinisti sul Cevedale, ma il suo destino era un altro: essere base avanzata degli austriaci. Lo cerchiamo nell’aria rarefatta, cuore che batte, passi lenti su blocchi di rocce rossastre. La quota è ragguardevole, cinquecento metri più dell’Adamello. Qui s’è combattuta la battaglia più alta di tutti i fronti della guerra mondiale: Punta San Matteo, quota 3678. Qui il cannone più alto, sulla cima dell’Ortles, piazzato dagli austriaci a 3905 metri, cinquecento in più del cugino italiano della Lobbia Alta in Adamello.
La vecchia frontiera Austria-Italia corre sul displuvio tra la Vedretta Rossa e lo sterminato ghiacciaio dei Forni. Vista perfetta sul Cevedale e il Zebrù. Dietro di noi, il lenzuolo di neve della Presanella e le cuspidi del Brenta. Terreno facile, non servono né piccozza né ramponi, col Generale arrivo a Punta Linke, m. 3631, una cuspide con i resti di una stazione di teleferica austriaca appena usciti dal gelo. Una pattuglia di operai picchia su vecchie travi, lavora di sega e fiamma ossidrica. Sono i trentini, velocissimi, che hanno iniziato il restauro prima che inizi il saccheggio dei collezionisti.
Nicola Cappellozza ha occhi azzurri da elfo incastonati nel bronzo, cuffia di lana calata sulla fronte. È guida alpina e archeologo, e segue i lavori per la soprintendenza. «In cent’anni — spiega — il ghiacciaio s’è abbassato di trenta metri, ed emerge sempre qualcosa di nuovo. Ma il bello è dentro, nelle gallerie della cima». E ci accompagna per corde fisse
sul gelido versante lombardo. In galleria c’è il raccordo fra due teleferiche, quella che arrivava con sei tratte vertiginose dal fondo della Val di Peio, e quella che partiva per la prima linea, con un’unica campata, sul Palon de la Mare.
Basta aprire una porticina e si passa la linea d’ombra. Un labirinto tappezzato di fiori di ghiaccio, appena rischiarato dal neon. Rotoli di reticolato, pezzi di motore a scoppio, una botte di birra, istruzioni per la teleferica, lettere da una fidanzata con le parole “ti bacia il tuo amore abbandonato”. E ancora una forgia per riparazioni d’urgenza, copie del Wiener Bilder, cartoline per tale Georg Kristoff. Ma la cosa più forte è l’odore, grasso e gasolio, identico a quello di allora.
Lotta acerrima per le posizioni dominanti, necessarie a dirigere le artiglierie, roba che oggi sarebbe impensabile, con i droni che danno le coordinate all’aviazione. Ma con i droni non si vince, l’Afghanistan insegna. Contro i Taliban la tecnologia è solo ammissione di inferiorità. Per vincere servirebbero gli uomini che si sono contesi il San Matteo. Il fatto è non ci sono più combattenti come quelli. Non ci sono più nemmeno alpinisti. Quasi più nessuno va sul Zebrù o il Cevedale, che con questo tempo è una passeggiata. All’ossessione delle cime è succeduta l’indifferenza. La guerra ti mette di fronte a una spaventosa decadenza della specie.
La sera, a Peio, incontro Sebastian Marseiler, un bravo figlio della Venosta, che mi mette in mano un suo libro, basato sulle memorie e le foto del Franz Haller, guardia territoriale delle sue parti, morto a quasi cent’anni. Leggo della tormenta che infuria, del buio “da piaghe d’Egitto”, degli uomini che devono tenere sgombro l’ingresso della baracca. “Appena si concedono un minuto di riposo, il vento ammucchia altra neve contro la porta, la stufa comincia fumare… Gli uomini soffiano e si sfiatano spolmonandosi affinché non cessi di ardere la brace della segatura”, e intanto gli altri escono a liberare la porta e aggiungere un altro mezzo metro al camino.
Il nemico, quassù, gli austriaci lo chiamavano “Nachbar”, il vicino. “Com’è il vicino?” si chiedeva al cambio. “Nicht schlimm”, niente male, era la risposta: “il nemico vero è la neve”. A volte la frizione vera era fra la truppa e i suoi ufficiali. Secondo alcuni, il comandante Angiolino Bozzi avrebbe spinto gli alpini all’assalto minacciandoli con la pistola, e sarebbe stato forse accoppato dai suoi. Sebastian scrive di un ufficiale austriaco che un gigante di Solda attaccò al muro perché obbligava le sentinelle a star fuori con tempeste di neve a meno trenta. Non c’era posto per gli esaltati all’ombra dei Quattromila.
Talvolta c’era persino tempo per divertirsi in quella abbacinante terra di nessuno. Al Vioz il capitano della compagnia dava concerti di pianoforte e violino con l’ufficiale medico. La stessa cosa al rifugio Lobbia Alta. Un pianoforte a coda, requisito a Riva del Garda, sfollata dagli abitanti, raggiunse la postazione austro- ungarica sulla cima del Cadria e anni dopo il proprietario, un maestro di musica, lo ritrovò in una casa delle Giudicarie. Chiese dove l’avevano trovato e, quando seppe che l’avevano tirato giù da quella quota, disse: “Questo pianoforte era mio, ma dopo questa impresa è vostro di diritto”.
A Natale “Stille Nacht” arrivava da fondovalle via telefono; e il telefono era coi fili, che passavano sui ghiacciai e dovevano essere sostituiti quando i temporali li bruciavano. Talvolta gli italiani sparavano Verdi col grammofono anziché granate. Cori passavano le linee nemiche. Anche nel mattatoio del Carso capitò che Toscanini dirigesse un’orchestra dopo la presa di Gorizia, ma era un’eccezione. Quassù era altra cosa.
Doveva strappare l’anima, la musica, in questo silenzio. Chissà cosa si doveva sentire, e quanto lontano, in un tempo in cui il mondo non era ancora coperto di strepito e demenza.
Senza saperlo, Sebastian mi dà una risposta. Una risposta così inverosimile da esser vera. «Il tenente Haller mi disse che sull’Ortles “in ganz windstillen Tagen hörte man den Kanonendonner des Isonzo”. Capisci?».
Sì, ho capito giusto. Nei giorni totalmente privi di vento si sentiva il tuono dei cannoni sull’Isonzo. Una visione quasi intollerabile.
Chiudo gli occhi, e con un brivido li risento. Bom borombon. Bom. Come in una lente di cristallo, mi appare l’Aleph del viaggio, la partenza nella pioggia fra le trincee del San Michele.
Sento il rotore di un elicottero. Vedo un pianoforte a coda calato in cima all’Ortles, vedo Riccardo Muti che suona nel vento, senza orchestra né pubblico, per i Caduti di tutte le guerre.
Solo allora capisco che il mio non è un arrivo, ma un cerchio che si chiude a perfezione.
(27 – fine)


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