I vicini interessati e pericolosi di un Paese diventato polveriera

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Se sarà guerra, nessuno sa prevedere che guerra sarà. Anche perché l’attacco punitivo contro la Siria in realtà non lo vuole nessuno. Non lo vogliono neppure quelli che lo faranno, e che si affrettano a qualificarlo come «limitato», «strettissimo», «rapido», tanto da procurare il minor male possibile al regime di Bashar Assad. Cioè al responsabile — secondo un’accusa non ancora ampiamente documentata — d’aver utilizzato gas nervino per colpire il proprio popolo.
Il paradosso è evidente. È davvero una primizia voler attaccare un nemico, considerandolo un fuorilegge internazionale, un delinquente incallito, senza l’idea di colpirlo direttamente, di abbatterlo, di rovesciare il suo regime. Evitando di considerare quelli che invece, dieci anni fa, erano gli indiscutibili obiettivi dell’attacco all’Iraq di Saddam Hussein.
Sperare però che i missili «soft» sulla Siria abbiano l’effetto di un indolore e salutare ceffone sul volto di un giovanotto viziato e turbolento, evitando conseguenze regionali, sarebbe un grave errore. Credo che abbia perfettamente ragione Ryan Crocker, ex ambasciatore americano in Siria e in Libano dopo aver servito come diplomatico in Iraq e Afghanistan, decano della Bush School of Government and public Service presso la Texas A&M University, quando dichiara lapidario al New York Times: «Il nostro più grande problema è l’ignoranza; siamo molto ignoranti sulla Siria».
Chi, nella regione più tribolata e pericolosa del mondo, aspetta ansiosamente il bombardamento, sono soprattutto due potenze regionali, la ricchissima Arabia Saudita e la baldanzosa Turchia, e poi una serie di Stati satelliti più piccoli, guidati dall’ambizioso Qatar. Riad non vede l’ora di indebolire l’ultimo regime laico del Medio Oriente, mentre la neo-interventista Ankara freme per assestare un colpo micidiale ad Assad, forse sperando di veder coinvolto il Paese che il premier Erdogan non sopporta: Israele. La ruggine, dopo l’attacco alla flottiglia pacifista costato la vita ad alcuni attivisti turchi, non si è certo dissolta dopo i buoni uffici di Barack Obama, che si è speso per facilitare il riavvicinamento tra i due più solidi alleati regionali degli Stati Uniti.
Israele, in verità, non ha alcuna intenzione di lasciarsi coinvolgere in un conflitto. Non può dirlo apertamente, ma se dovesse scegliere preferirebbe di gran lunga il regime di Bashar Assad all’idea di avere sul proprio capo la nebulosa dell’opposizione siriana, condizionata dal fanatismo degli estremisti sunniti, che odiano lo Stato ebraico, e che potrebbero raccordarsi con i fondamentalisti palestinesi di Hamas, nella Striscia di Gaza. Israele, per contro, potrebbe avere la tentazione di assestare qualche duro colpo, mirato e chirurgico, al maggior alleato regionale della Siria, quell’Iran dei programmi nucleari che ha tolto il sonno a Gerusalemme. Certo, l’Iran è potenzialmente pericoloso, ma anche gli Stati Uniti, che vogliono punire Assad, non intendono coinvolgere Teheran, proprio ora che al vertice non c’è più l’ottuso e intransigente Ahmadinejad ma il più dialogante e moderato Rohani. In caso di attacco alla Siria, non verrebbe ovviamente risparmiato il Libano. Laggiù la guerra civile siriana già si è allargata per tre ragioni: le milizie sciite filo-iraniane dell’Hezbollah combattono a fianco del regime di Assad, mentre il braccio politico del «partito di Dio» è essenziale per gli equilibri politici del Paese; gli attentati e le brutali rese dei conti fra sciiti e sunniti hanno seminato la morte, sia a Beirut sia più a nord, a Tripoli; e infine perché il cordone ombelicale tra Siria e Libano è quasi indissolubile.
È altrettanto chiaro che, in caso di conflitto allargato, a seguito dell’attacco rapido e punitivo, non sarebbe ovviamente risparmiato l’Iraq, Paese a grande maggioranza sciita, che dieci anni dopo la sciagurata guerra del 2003 non trova né pace né stabilità. Migliaia di miliziani sciiti sono pronti a partire per affiancarsi ai soldati di Assad.
Un caso a sé, naturalmente, è rappresentato dall’Egitto, di cui ora si parla meno, ma dove le turbolenze sono soltanto rinviate, dopo il «golpe popolare» delle Forze armate e i sanguinosi scontri fra avversari e fedelissimi dell’ex presidente, il defenestrato e arrestato Morsi. Il Cairo si guarderà bene dall’esporsi all’eventuale contagio bellico, anche se politicamente sarà accanto agli interventisti: per veder confermato il sostegno di Washington, che ogni anno dona un miliardo e mezzo di dollari all’Egitto per premiarlo d’aver fatto la pace con Israele; e per dimostrare gratitudine all’Arabia Saudita, che ha deciso di investire una montagna di denaro per consolidare il più grande e importante Paese arabo.
Il calcolo di chi si prepara a bombardare la Siria potrebbe, in fin dei conti, essere semplice e cinico: ridurre la distanza tra i lealisti e l’opposizione, che oggi vede prevalere gli uomini di Assad. E forse sperare di costringere il giovane dittatore a più miti consigli. Calcolo azzardato. Il regime di Damasco è più determinato di quel che si pensi, e poi conta su amicizie importanti e decisive: Russia e Cina, entrambe con diritto di veto al Consiglio di sicurezza dell’Onu.


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