by Sergio Segio | 11 Settembre 2013 7:58
«L’idea di governare il mondo sta diventando il sogno di ieri». Specie se a coltivarla è un unico paese, aggiungeremmo. Sta diventando una distopia, più che un’utopia: una visione del futuro indesiderabile, e storpiata. Anche nelle relazioni internazionali, come nella vita delle democrazie costituzionali, un potere e un leader non possono regnare da soli, permanentemente allergici a altri poteri o altri Stati.
Quando si parla di sistema multipolare si dice questo: anche se non ancora scritta, deve esistere almeno un’idea di costituzione mondiale, tale da disciplinare il potere quando si fa troppo solitario. Se non viene frenato, controbilanciato, quest’ultimo diverrà per forza abusivo, arrivando «sin dove non trova limiti. Perché non si possa abusare del potere, occorre che il potere arresti il potere». Così dice Montesquieu: occorre che i poteri (esecutivo, legislativo, giudiziario) si bilancino a vicenda separandosi. La moderna democrazia costituzionale è stata inventata per spezzare l’assolutezza del potere.
Nello spazio globale la regola non è codificata ma prima o poi tende a imporsi: ancora non esiste la Repubblica mondiale del diritto auspicata da Kant, ma l’alternativa non può essere – e di fatto non è – il prevalere di una potenza unipolare. Sarebbe come unire, in uno Stato, i tre poteri elencati da Montesquieu: quando questo avviene, «regna lo spaventoso dispotismo dei sultani». Proprio in questi giorni il nostro Parlamento sta facendo i conti con un sultano che aspirava a simile dispotismo. Più di altri, gli italiani possono immaginare i disastri che l’egolatria può produrre anche nello spaziomondo.
Nonostante le promesse iniziali, Obama riproduce la distopia dei suoi predecessori, nella vicenda siriana. L’America che propone è ancora quel
faro che pretende di dettare legge al mondo, in nome di una universale funzione messianica. La tentazione è antica – risale all’idea ottocentesca del Destino Manifesto impersonato dalla democrazia Usa – e dopo la fine dell’Urss si è dilatata: è allora che cominciano a succedersi i progetti, in genere fallimentari, sempre militari, di affermare il primato americano in un ridipinto, fantasticato Grande Medio Oriente. Le guerre condotte nella zona che fu
a suo tempo terreno di scontro fra Usa e Urss sono praticamente tutte guerre egolatriche. L’Europa si è accodata in ordine sparso, mai cercando una linea comune e tanto meno un’alternativa: subalterni sempre, anche quando erano alleati riottosi.
Le guerre egolatriche non nascono senza buoni motivi, morali e umanitari. Sono veri tiranni, gli Stati combattuti. E terribile è quando cade il tabù delle armi chimiche, anche se già è caduto più volte senza eccessivi patemi: fu usato dall’Iraq contro l’Iran, complici gli Usa, e non dimentichiamo l’Agente
Arancio e il napalm americano in Vietnam, o le bombe al fosforo israeliane a Gaza. Ma i buoni motivi non bastano, quando ancora non è chiaro se davvero il gas è stato usato da Assad, il 21 agosto nelle periferie di Damasco (tra i più dubbiosi: India, Cina, Brasile). Ancor meno bastano quando l’egolatra- guerriero misconosce i contesti locali, e dunque gli effetti possibili del proprio agire. O finge di disconoscerli.
Nel 2001 non si sapeva nulla del-l’Iraq, e il risultato fu l’irradiarsi regionale del potere iraniano. Nella guerra libica non si previde il caos successivo alla caduta di Gheddafi: l’arbitrio delle milizie, i massacri, lo Stato radicalmente sfasciato. Oggi, sulla Siria, si ragiona come se fossimo all’alba delle Primavere arabe: siamo impigliati nel passato, e il futuro è occultato. Eppure non è Marte, il futuro: la logica conseguenza di un intervento in Siria sarà la sicura, ormai, atomica iraniana. Come difendersi, se non santuarizzando la propria terra e renderla inviolabile?
Sequestrati dai ribelli siriani, liberati dopo cinque mesi, il giornalista Domenico Quirico e l’insegnante belga Pierre Piccinin che era con lui hanno lanciato una pietra nello stagno delle illusioni franco- americane: «Ho cercato di raccontare la rivoluzione siriana – così Quirico – ma può essere che questa rivoluzione mi abbia tradito. Non è più la rivoluzione laica di Aleppo, è diventata un’altra cosa, molto pericolosa e complessa. È come se fossi vissuto cinque mesi su Marte, ho scoperto che i miei marziani sono malvagi e cattivi». Ancora più preciso Piccinin, che ha dichiarato: «È nostro dovere morale, mio e di Quirico, di dirlo: non è il governo di Bashar al-Assad ad aver usato il gas sarin o altri gas di combattimento nelle banlieue di Damasco. Ne siamo certi a seguito di una conversazione che abbiamo ascoltato».
Quando la potenza solitaria traccia le sue invalicabili linee rosse (Obama lo ha fatto il 20 agosto 2012) gli abbagli che prende sono due. Primo: ignora gli intrichi locali in cui s’infila, e si mette nelle mani di potentati non meno tirannici di quello siriano – l’Arabia Saudita, interessata a piegare l’Iran – oltre che delle correnti meno pacifiche di Israele (rappresentate a Washington dall’Aipac: il gruppo di pressione American Israel Public Affairs Committee, non rappresentativo della diaspora ebraica mondiale). Secondo: presume che a tracciare la linea rossa sia il mondointero, come sostiene il segretario di Stato Kerry. È l’hybris, ancora una volta, del Destino Manifesto.
La storia tuttavia non si ripete e le novità son numerose. Il potere Usa è oggi in declino, e non solo dispone di ben pochi alleati volenterosi ma è frenato da un argine potente: la Russia. Putin non è democratico. Ma se Assad sarà convinto a consegnare le armi chimiche a un’autorità internazionale, se la guerra sarà evitata, non lo si dovrà tanto all’escalation Usa quanto al Cremlino, e al veto che può esercitare nel Consiglio di sicurezza Onu. Memorabile il rattrappimento verbale di Kerry, lunedì a Londra: «La guerra sarà incredibilmente piccola ». Così piccola da dissolversi, forse.
La seconda grandissima novità è la rivincita dei parlamenti nazionali, il peso che si stanno riprendendo. La svolta, storica, è avvenuta a Westminster il 29 agosto, con il gran rifiuto opposto ai piani bellici di Cameron. Dopo di che anche Obama ha deciso di cercare il consenso del Congresso. Secondo lo storico Andrew Bacevich non si era mai visto, in sessant’anni, e l’atto è coraggioso: «Potrebbe essere l’occasione di ridiscutere un trentennio di guerre disastrose».
Una terza novità, l’avremmo se l’Europa innalzasse un proprio argine, accanto a quello russo. Ma un’Europa siffatta non esiste, a causa soprattutto della Francia. Hollande imita il nazionalistico culto di sé dell’America, ma in miniformato. E del tutto assente a Parigi è la rivincita del Parlamento: la guerra rientra nella sfera riservata dell’Eliseo (anche se il domaine reservé non figura nella Costituzione gollista) e nei conflitti si entra senza permesso parlamentare. Con le sue sole forze Parigi non può nulla, ma l’idea di agire con l’Unione non la sfiora. Suo obiettivo: sfoggiare la propria potenza davanti a Berlino; contrapporre lo scintillio delle proprie armi (e del proprio commercio d’armi) allo scintillio del primato economico tedesco in Europa. Il risultato è un’Europa che a Vilnius, il 7 settembre, s’è distanziata da Obama accucciandosi. Il comunicato dei suoi ministri degli Esteri è un capolavoro di dappocaggine. L’Unione è per una «risposta forte» all’attacco chimico del 21 agosto. Ma non osa dire che la colpa di Assad non è provata, né dettagliare la risposta, né pensare un diverso Medio Oriente. A metà strada fra Russia e America, l’Europa disunita ciondola, come un dente malmesso. Ciondolando, mostra la propria inconsistenza sino a svanire.
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