Grillo stronca i dissidenti: “Siamo in guerra”

by Sergio Segio | 4 Settembre 2013 8:12

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ROMA — Mentre i suoi senatori stanno ancora discutendo in diretta streaming, mostrando più che mai ferite aperte, e profonde, Beppe Grillo piomba con il blog a dire – ancora una volta – «siamo in guerra». «Il Movimento 5 stelle non è violento, ma è rivoluzionario. Vuol cambiare la società, restituire ai veri giocatori – i cittadini – la scacchiera, il gioco». E quindi «è condannato dalla sua stessa natura a vincere la partita o a perderla irrimediabilmente. I pezzi bianchi non possono allearsi con quelli neri. A differenza degli scacchi in questa partita non è previsto il pari, ma solo lo scacco matto».
«Non è più tempo di parlarsi addosso, ma di azioni», scrive il capo politico. E invita, praticamente in diretta, «chi vuole guardarsi l’ombelico» a tirarsi fuori («Il M5S non è il suo ambiente»). Poi annuncia: «Presto faremo il terzo Vday. Tenetevi pronti».
Parole che per i “talebani” sono come una festa. E che mettono nell’angolo chi, in quello stesso momento, a Palazzo Madama, cerca di spiegare fino in fondo come la pensa: primo fra tutti Luis Alberto Orellana. L’ex vice capogruppo al tempo di Vito Crimi, lo sfidante di Nicola Morra per la presidenza del gruppo (perse di soli due voti), il mite dirigente di una società telefonica di Pavia, dice chiaro che nella prospettiva di un governo a 5 stelle sulle alleanze «non bisogna avere tabù». «Possiamo avere un potere contrattuale fortissimo – spiega – io sono per il dialogo come eravamo per il dialogo ad aprile, quando siamo andati a parlare con il Pd». Poi il nodo militanti, la necessità di coinvolgerli davvero: «La piattaforma sono anni che viene promessa, chi ha promesso dovrebbe dimettersi». E infine, la «totale opacità su chi compone lo staff».
«Sono successe cose gravi – dice riguardo al post di Claudio Messora che invitava tutti a non giocare al “piccolo onorevole” – una persona stipendiata da noi ha scritto sciocchezze, insinuato cose gravi senza prove, offeso il nostro lavoro». I “talebani” difendono il consulente della comunicazione. Ricordano che nel regolamento la scelta dello staff spetta a Grillo. L’autrice di stornelli antidissidenti Paola Taverna esplode: «Non è stipendiato da noi, ma dai cittadini, non siamo imprenditori che ci mettono il culo». Carlo Martelli parla di «coda di paglia» di chi si è sentito offeso. «Ci spieghino cosa volevano fare», continua, per poi raccontare come la chat WhatsApp del gruppo – nell’ultimo mese – fosse diventata «una cloaca maxima degli insulti ». Eppure, parlano anche Alessandra Bencini, che legge una lettera di sostenitori che le chiedono di cambiare il porcellum e chiede «di chi siamo portavoce? Del nostro meet up, del blog, o degli 8 milioni e mezzo che ci hanno votato? ». E Fabrizio Bocchino, che reclama la piattaforma chiedendo che gli attivisti vengano messi al centro («Non si sa chi parla in nome di chi»). E Maurizio Romani, che dice: «Se volete che non parli con i giornalisti cacciatemi. Parlare è nostro dovere». Poi sintetizza: «Vedo tanto astio in questa stanza. Sembra quasi che siamo già divisi in due gruppi, forse in tre».
È plasticamente così. Ci sono gli 11 dialoganti (alcuni assenti, altri, come Lorenzo Battista, che ieri hanno scelto il silenzio); 12 incerti, con posizioni altalenanti, a seconda delle situazioni; e poi i talebani, che alzano i toni, invitano chi ha dubbi ad andar via, chiedono documenti che obblighino tutti a non fare interviste, a giurare di non fare mai e poi mai alleanze con alcuno. La riunione finisce tronca («continuerà via e mail»). Ognuno resta sulle sue posizioni. Nicola Morra – conversando con i giornalisti – chiede che Orellana rettifichi, «altrimenti dovrà prendere atto che le strade divergono».
Ma alla Camera, dove subito dopo è prevista una congiunta con i deputati, i “dissidenti” non si presentano. Chi c’è vota contro lo streaming: «Non vogliamo alimentare il gossip dei giornalisti», spiega il capogruppo Nuti, confermando la linea della trasparenza a giorni alterni. Per quanto le porte restino chiuse, il malumore emerge: l’unità di intenti che aveva prevalso prima della pausa estiva – con l’ostruzionismo riuscito contro il cambio della Costituzione – sembra essersi sciolta sotto il sole d’agosto. Si torna divisi più che mai: sulla linea, ma soprattutto, su chi la decide.

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