GOVERNARE IL MONDO
Governare il mondo è la suprema utopia geopolitica. Alla storia di questa idea, alla sua concreta dialettica con il potere nelle sue variabili forme, è dedicata l’ultima fondamentale opera di Mark Mazower (Governing the World, New York 2012, Penguin Press), storico britannico noto anche in Italia per i suoi studi sull’Europa del Novecento (Le ombre dell’Europa, Garzanti).
Mazower analizza i tentativi di dare un ordine al mondo sia attraverso le intese fra le potenze sia stabilendo degli standard e delle organizzazioni internazionali – dalla Società delle Nazioni alle Nazioni Unite. Per scoprire che, alla fine, le grandi burocrazie internazionali diventano fini a se stesse, sicché la loro efficacia dipende dall’intesa fra le maggiori potenze, oggi più ardua che mai. Una lezione che la guerra di Siria sembra finora confermare.
Il suo libro Governing the World si conclude con una frase: “L’idea di governare il mondo sta diventando il sogno di ieri”. Può spiegarla?
«Noi abbiamo perso la fede nelle istituzioni e nella loro capacità di plasmare il futuro e di indirizzare la vita quotidiana. Proprio questa fede aveva permesso alle generazioni passate di costruire e tenere in piedi istituti di governo sia nazionali che internazionali. Oggi il loro posto può essere preso dai mercati, dalla Rete o da altre forme di relazioni tra gli umani, o almeno così sperano gli ottimisti. Ma non mi sembra che ne abbiano le potenzialità: nel migliore dei casi, possono essere sostituite da una sorta di expertise manageriale e tecnica».
A che punto è l’utopia dell’integrazione del nostro continente?
«Ha preso una brutta piega. Ai suoi albori, il processo d’integrazione ha conseguito risultati straordinari, contribuendo a rendere la guerra nel continente un’opzione quasi inimmaginabile. All’inizio degli anni Cinquanta del Novecento ha pure aiutato a rendere prosperi i paesi europei e a rigenerare la fiducia nella democrazia».
O a inventarla là dove non esisteva, come in Italia…
«Di certo, dalla seconda guerra mondiale la democrazia è uscita molto diversa, più popolare e accettata. Tuttavia, questo quadro roseo è stato intaccato
dal progetto della valuta comune. Tra gli anni Ottanta e Novanta, gli europei e gli americani erano ammaliati dal verbo della finanziarizzazione dell’economia mondiale, all’epoca ritenuta il futuro. Così hanno ridotto ai minimi storici il controllo sul capitale. Ma la nuova utopia della globalizzazione, specialmente nella sua piega finanziaria, si è rivelata un calice avvelenato. In questo contesto rientra l’architettura dell’unione monetaria: all’epoca non c’è stato sufficiente dibattito sulla sua rigidità e sulla questione della crescita. Tutti a Bruxelles – e a Berlino – dovrebbero essersi ormai resi conto che, se la rotta non dovesse cambiare, l’euro rischia di sconquassare l’intero progetto europeo».
Quanto alle altre potenze mondiali, l’America continua a pensare in termini universali?
«Continua a credere di essere in possesso del messaggio per il mondo e per questo si pensa ancora intrinsecamente come la nazione eccezionale. La fiducia in se stessa della scienza sociale, in particolar modo dell’economia, è stata nonostante tutto intaccata e il dibattito accademico sulle lezioni da apprendere non si traduce in nuovi consigli pratici.
Eppure un dibattito sul mondo postamericano esiste.
«Riguarda più che altro la disillusione sulla promozione della democrazia liberale, riflesso dell’ansia di veder ridotta la capacità americana di farsi ascoltare all’estero. I più attivi sono commentatori come Fareed Zakaria o istituti come il Council on Foreign Relations che pressano l’amministrazione Obama per sostenere l’espansione della democrazia ma in modo più scaltro rispetto al passato – come se il problema fosse che lo si era fatto in modo stupido».
Quando parlano di democrazia universale gli americani hanno in mente la propria?
«Sì, vorrebbero veder replicata la loro versione, eccezion fatta per i lobbisti e per gli incredibili bisticci tra i decisori. Manca l’idea che la democrazia sia un patto sociale, non una mera tecnica di governo. Un processo storico, non un modello astratto da applicare».
L’idea di governare il mondo implica che si creda nel concetto di sovranità. Al di là del fatto che non per tutti la sovranità abbia lo stesso significato, possono esistere sovrani internazionali?
«Il grande errore non sta nel ritenere che siano le nazioni i sovrani più appropriati ma che questo fattore sia un ostacolo per l’emersione di una sovranità internazionale. Storicamente, le architetture internazionali di successo erano quelle che riconoscevano la tenacia delle istituzioni nazionali e con esse lavoravano. L’Unione Europea ne è una prova lampante, in quanto i suoi ideatori erano degli statisti. Anche gli attuali pessimi sondaggi d’opinione in Europa suggeriscono questa correlazione: la gente perde fiducia in Bruxelles quando perde fiducia anche nei confronti delle proprie élite nazionali».
È possibile una democrazia internazionale?
«Alcuni teorici asseriscono la necessità di dissolvere ogni organizzazione nazionale o di creare un unico parlamento mondiale. Un progetto del tutto campato in aria, anche perché non c’è nessuna prova che qualcuno sia interessato. Al momento la gente non ha più fiducia nemmeno nel proprio parlamento, figurarsi in uno sovranazionale ».
Quindi questa crisi delle istituzioni altro non è che una crisi della politica?
«Esatto, il problema è che nessuno crede più al carattere politico delle istituzioni, a cominciare dai politici stessi. Sembra che tutto debba essere depoliticizzato, che tutto debba risolversi in una mera questione di tecnicismi».
La tecnocrazia, appunto. Se nessuno crede più nella democrazia, si può immaginare la distopia di un governo tecnocratico mondiale?
«La gente comune dà ancora importanza all’appartenenza a un’ideale comunità politica. Paradossalmente sono proprio i politici ad aver perso fiducia nel concetto di politica. Anche perché la tecnocrazia rimuove il problema per i politici della ricerca del consenso. E sono sempre loro a farsi persuadere di essere costretti dai tempi a lasciare prerogative ai mercati o alle istituzioni finanziarie. Forse dovremmo osservare con maggiore attenzione chi decide di diventare un politico, la sua conoscenza del mondo e il grado di consapevolezza di essere l’origine del problema».
Se questa nuova crisi europea scatenata dalla moneta comune continuerà, quale ne sarà il risultato in termini geopolitici?
«L’abbassamento delle barriere contro gli estremismi. L’Europa diventerà ideologicamente molto più incerta, instabile e indifesa. Basta guardare in Grecia: quando un partito compie gesti di violenza, fisica e verbale, il suo apprezzamento non scende, si mantiene. Come quello di Alba dorata, da mesi salda al 13%, terzo partito nazionale. Incidenti come quello del deputato che tenta di picchiare il sindaco di Atene sembrano giovare all’immagine del partito. Avremo sempre più partiti come questo. Anche in Germania. A quel punto, cominceremo a preoccuparci davvero».
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