by Sergio Segio | 8 Settembre 2013 7:02
C’ è uno scarto tra letteratura e storiografia sull’8 settembre 1943 e le sue conseguenze. Non importa di quale orientamento politico fossero, scrittori come Cesare Pavese, Beppe Fenoglio, Leo Longanesi, Curzio Malaparte, Mario Tobino, Alberto Moravia seppero raccontare, alcuni quasi in presa diretta, lo sbandamento di una nazione, sottolinearono subito il fattore spesso casuale nelle scelte di chi aveva deciso di stare dalla parte giusta, si accorsero che la lotta partigiana era opera di una minoranza, che la maggior parte degli italiani, come avrebbe raccontato Renzo De Felice sessant’anni dopo, si era messa in una posizione di attesa, in una «zona grigia».
A sottolineare la lucidità dei romanzieri, contro una storiografia che per decenni si è impegnata a costruire una vulgata non necessariamente basata su dati falsi, ma sicuramente distorti, è Gianni Oliva, nel bel saggio L’Italia del silenzio. 8 settembre 1943 (Mondadori, pp. 191, € 19,50). È stata soprattutto la storiografia marxista e di sinistra a porre l’accento sugli aspetti positivi dell’8 settembre, da Roberto Battaglia, che nella sua Storia della Resistenza (1953), parla di «germi della rinascita», a Giorgio Bocca, che nella Storia dell’Italia partigiana (1964) dice che «l’avanguardia di settembre ha radici profonde», a Guido Quazza, che ancora nel 1976, in Resistenza e storia d’Italia, individua nell’8 settembre «la vera data dell’antifascismo».
Per i romanzieri italiani la data dell’armistizio non fu così radiosa come per la storiografia nei primi decenni del dopoguerra. Nessuna autorappresentazione consolatoria, nessun omissis o rimozione dei fatti, che poi è il vero motivo della «storia che ritorna» ossessivamente sempre sugli stessi temi e che è stata uno dei problemi dell’immaturità collettiva italiana.
Facciamo qualche esempio e qualche paragone: soltanto nel 2003 Giampaolo Pansa spiegò nel Sangue dei vinti (clamoroso caso editoriale e oltre un milione di copie vendute) la scia di violenze inutili che si era portata dietro la Resistenza. Ma di che cosa parlava nel 1960 Carlo Cassola nel romanzo La ragazza di Bube, se non delle vendette private di un ex partigiano?
Non sono molte, anche di recente, le opere storiografiche sui «danni collaterali» degli Alleati in Italia, dai bombardamenti inutili alle cosiddette marocchinate: la Controstoria della liberazione di Gigi di Fiore è del 2012. Curzio Malaparte già nel 1948 ne La pelle aveva raccontato delle vergini napoletane vendute ai soldati americani e Alberto Moravia nel romanzo La ciociara (1957) aveva inciso nella nostra memoria la violenza subita dalle donne concesse come premio alle truppe marocchine dagli ufficiali francesi.
Il disincanto sulle motivazioni della scelta partigiana era presente in uno scrittore di sinistra come Italo Calvino che, nel 1964, nella nuova prefazione al Sentiero dei nidi di ragno, scriveva: «Per molti dei miei coetanei era stato solo il caso a decidere da che parte dovessero combattere». Lo stesso disincanto guida la mano di Beppe Fenoglio quando in Primavera di bellezza (1959) descrive il modo casuale in cui Johnny, vestito di abiti civili, si unisce a una banda partigiana. E Cesare Pavese in Prima che il gallo canti (1948) dipinse l’8 settembre in una Torino dove «la gente aveva l’aria di pensare ai fatti suoi».
Per illustrare la sindrome del «tutti a casa» Mario Tobino ne Il clandestino (1962) parlò della «rapidità italiana a distinguere il particolare interesse», per cui «ogni soldato si sentì sciolto dalle stellette e ritornato cittadino e allora, unica unanimità, tutti seguirono l’unico concetto che ancora era vivo, l’unico rimasto, la famiglia, ritornare ai fondamentali affetti…». E sul generale sbandamento era stato Leo Longanesi, nel volume In piedi e seduti, a scrivere: «Gli italiani ora sono come le formiche quando si distrugge loro il nido, corrono da tutte le parti, a piedi, in treno, a cavallo».
Gli scrittori italiani, come acutamente osservò Calvino, dopo la lunga parentesi retorica del fascismo avevano solo voglia di raccontare il vero, animati da una «carica esplosiva di libertà». Gli storici invece a lungo lessero il passato prossimo con le lenti del presente, per dare una giustificazione agli assetti politici della nuova Italia. Raccontarono una storia che metteva in luce protagonisti minoritari e trascurava comportamenti di massa, omettendo i lati sgradevoli e facendo coesistere anche aspetti tra loro contraddittori.
Il merito di Oliva è aver dato voce alla trascurata «Italia del silenzio», narrando i fatti militari, le reazioni della popolazione all’armistizio, analizzando i progressi della storiografia sull’argomento, da Roberto Battaglia a Claudio Pavone (Una guerra civile, 1991), a Elena Aga Rossi (Una nazione allo sbando, 1993) e a Ernesto Galli della Loggia (La morte della patria, 1996). E rivalutando la funzione civile che ha avuto la nostra migliore letteratura del secondo dopoguerra.
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