E l’acqua di Lourdes non salva le Larghe Intese
TUTTE cose su cui pare avventato fare affidamento, specie per un democristiano di vaglia e di nobili ascendenze come lui.
Si ricorderà come nel discorso d’investitura egli si fosse in qualche modo paragonato a Davide, il pastorello, che nella valle di Elah tagliava la testa al gigante cattivo, la cui identità però almeno a Montecitorio era rimasta piuttosto indefinita. Anche ai tempi dello Scudo crociato, del resto, la cronaca politica ospitava spesso frammenti di storia sacra, apparizioni della Vergine, vite dei santi. E sempre all’inizio di settembre, capitato a Viterbo per la magnifica festa patronale, Letta aveva osservato gli eroici sforzi dei facchini, anche lì con qualche incauto compiacimento: «Il mio governo assomiglia alla macchina di Santa Rosa: fatica e barcolla, ma non cade mai».
Ecco, si capisce oggi che quel “mai” era eccessivo. Appena cinque mesi è durato in realtà il governo delle larghe intese. Troppo e al tempo stesso troppo poco. Quando una maggioranza è normalmente designata “strana”, parola povera e vuota, tale stranezza produce esiti come minimo ambigui, o arcani, o enigmatici, o forse ancora imperscrutabili. Lui comunque ci ha provato, mostrando stoffa e tenuta psicologica.
Ma a salvare il suo governo non è servito nemmeno ciò che Francesco Merlo ha ben definito lo “ziolettismo”, che dell’acqua di Lourdes costituisce la variante materiale, o materialistica che sia. Quando Berlusconi accettò Letta a Palazzo Chigi disse, invero piuttosto sorvegliato: «Appartiene a una famiglia che conosciamo bene». In futuro, forse, si verrà a conoscere il ruolo di zio Gianni, per sua natura e vocazione ambasciatore occulto del Cavaliere, mentre gli eventi di questi ultimi giorni ineluttabilmente precipitavano.
Ma nel frattempo, a ulteriore conferma della suddetta e innaturalissima “stranezza”, vale anche ricordare che quando il presidente della Repubblica fece la sua scelta e diede l’incarico a Letta nipote, sempre Berlusconi, in questo caso più riconoscibile nel consueto stile, esortò le sue deputatesse a intonare: «Meno male che Giorgio c’è» — e anche questa oggi, col senno di poi, sa di temeraria esagerazione.
Ciò detto, e una volta infranta la “pax lettiana” (lectio di Marco Follini), viene anche un po’ da chiedersi cosa sia stata veramente e cosa ne rimarrà nel ricordo. Certo non la “Pizza larghe intese” improvvidamente infornata alla festa del Pd di Lavaiano, provincia di Pisa (ohi, la città del presidente), spaventoso manufatto per metà mozzarella e pancetta toscana, per l’altra metà mascarpone e salmone norvegese. Si perdoni la deriva pop, ma la giorno d’oggi ha il suo perché. Vedi l’uso smodato del verbo “fare”, dall’euforico “fare spogliatoio” al “pacchetto del fare”; vedi la gita dei neonominati alla finta Abbazia con felpe e zainetti; vedi le foto che ancora ad agosto gioviali ministri si scattavano gli uni con gli altri in consiglio dei ministri. Non si vuole qui mostrare alcuna puzza sotto il naso, ma la smania di attaccarsi a tutto ciò che non suonava “divisivo”,
aggettivo tanto goffo quanto entrato d’impeto nel lessico governativo, ha partorito piccoli mostri di retorica, anche strappalacrime, il più esemplare dei quali si deve ad Alfano, prossimo eroe della guerra kazakha, cui parve opportuno di assegnare all’esecutivo il compito di “regalare giorni migliori ai nostri figli”; e a tale proposito raccontò di aver notato che i suoi, di figli, erano coetanei a quelli di Letta, e anche alla creatura bipartisan generata dal ministro dell’Agricoltura berlusconiana e da un collaboratore del premier, anche lei coetanea pure ai nipotini del ministro Cancellieri e, visto che c’era, Alfano aggiunse i ragazzi di Josepha Idem. Che di lì a poco contribuì a far dimettere.
Alla Biancofiore, d’altra parte, che non ha figli, furono tolte le deleghe, e insomma si litigava anche, e talvolta di brutto. Ma poi, complice la congiuntura economica, e lo stato di emergenza, e quello di eccezione, e la consacrata stabilità, qualcosa pur sempre tra le due parti accadeva. La Mussolini, che pure non è che eccelle per il suo tatto, fece un piccolo elenco piuttosto espressivo: «Sorrisetti, occhiolini, ammiccamenti, pacche sulle spalle». Dalla luna di miele, a suo coniugale giudizio, si stava passando alla comunione dei beni. Ma fu pure autorevolmente notato, da parte dell’ex direttrice di Novella2000 Candida Morvillo, che le larghe intese stavano «soffocando anche il gossip»: niente più colpi bassi, in nome della “pacificazione”, altra paroletta figlia del clima, e delle sue necessità.
E tuttavia a vederla ancor più dall’esterno, a parte i copiosi annunci-twitter, il governo — o “governino” secondo Dagospia — sembrava più che altro connotarsi per una notevole serie di rinvii, slittamenti e congelamenti, forse inevitabili, comunque tali da mettere abbastanza in dubbio il “percorso di speranza” che Enrico Letta aveva rivendicato nel mentre inaugurava, al suono di centinaia di trombette (era dovuta intervenire la Polizia per placare l’entusiasmo dei suonatori in platea) il meeting di Cl.
L’Imu, L’Iva, gli F35, il Porcellum, il finanziamento pubblico, l’intervento in Siria, perfino sull’elezione della Santanché, che non sarebbe un tema del governo, la maggioranza per ora rimandava, poi si vedrà — e si è visto nel giorno in cui il freschissimo eletto ha presentato le dimissioni.
Il problema dei temporeggiamenti è che di norma non solo non tengono conto dei guai che intanto sopraggiungono, ma si accumulano aggrovigliandosi. Gli impicci giudiziari del Cavaliere, per esempio, che venivano al pettine, le solite divisioni nel Pdl, le consuete tribolazioni del Pd, la fretta e la furia di Renzi. Un giorno Letta, che fra le sue virtù oltre alla calma ha quella di non prendersi troppo sul serio, fu messo in contatto con l’astronauta Parmitano, in orbita: «Se c’è posto — disse — vengo anch’io lassù». Ma non c’era posto. D’altronde era così affollato il forum di Cernobbio che nella calca, andando a messa, il presidente ha perso una scarpa: pessimo presagio di imminenti e “larghe offese”, come le ha qualificate il poeta Enrico Magrelli; e come al momento nemmeno l’acqua santa di Lourdes potrebbe renderle più sane e pulite.
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