by Sergio Segio | 14 Settembre 2013 8:11
Eppure il ricorso alla rappresaglia è una mossa non nuova nella strategia adottata dai vertici del gruppo nell’ultimo anno, a Taranto e nel resto d’Italia. A ogni intervento della magistratura, i Riva hanno sistematicamente risposto annunciando dismissioni e messa in mobilità di migliaia di lavoratori, facendo così pagare agli operai i costi della mancata trasformazione degli impianti inquinanti. È proprio per dirimere questo muro contro muro che si è giunti, tra mille incognite, alle leggi Ilva e al provvedimento di commissariamento della grande fabbrica jonica. Separare lo stabilimento dal destino dei Riva era di fatti l’unico modo per avviare quel profondo ammodernamento degli impianti che potrebbe tenere insieme lavoro e ambiente, evitando l’assurdo gioco della torre cui una grande città del Sud e il paese tutti sono stati costretti in pieno XXI secolo.
CONTINUA|PAGINA2 Ora il conflitto si ripresenta su scala ancora maggiore. I Riva minacciano di chiudere quegli stabilimenti non soggetti al percorso di commissariamento dell’ultimo anno, in risposta al provvedimento di sequestro della magistratura. Quest’ultima invece risponde che per raggiungere il tetto degli 8,1 miliardi di euro (a tanto ammonterebbe il mancato intervento sulla trasformazione degli impianti a partite dalla privatizzazione del 1995) è inevitabile puntare sui beni immobili o comunque «visibili», dal momento che – sostiene sempre la procura – i proventi più ingenti dei Riva hanno preso la via dei conti protetti nelle isole del Canale della Manica.
A rendere ancora più intricato il piano giudiziario, politico e sociale si aggiungono poi altri fattori e altre attese. La città di Taranto e gli operai del siderurgico attendono come in un limbo la presentazione da parte del commissario Bondi del piano industriale che, una volta presentato a novembre, dovrebbe definire i tempi e i modi degli interventi sugli impianti, svelando in buona sostanza se la difficile partita dell’ammodernamento può essere condotta a termine o al contrario, in assenza di adeguate coperture finanziarie e di un chiaro indirizzo, rischia di naufragare. Poi ci sono: la debolezza dell’esecutivo nell’indicare un preciso programma di politica industriale, la crisi che continua a martellare e che – soprattutto al Sud – ha numeri sempre più allarmanti, i dati sulla devastazione ambientale che si abbattono come un maglio su qualsiasi discorso abbia a che fare – è bene ricordarlo – con la questione Ilva.
Proprio per questo, la rappresaglia contro gli operai non impiegati nella grande acciaieria (non solo quelli degli stabilimenti Riva al Nord, ma gli stessi 114 dipendenti di «Taranto energia», la centrale elettrica da cui lo stabilimento dipende, benché finora non sia stata soggetta a commissariamento) apre uno scenario cupo, che esige risposte radicali.
Il gruppo Riva che minaccia licenziamenti e chiusure per sottrarsi ancora una volta alle responsabilità del disastro ambientale, che inventa un vera e propria «struttura ombra» in sostituzione dei vertici ufficiali della fabbrica per rispondere al noto feticcio della «governabilità» degli stabilimenti, che pretende la cassa integrazione in cambio delle proprie inettitudini, è lo specchio deformato di un capitalismo italiano incapace di rispondere alla crisi in cui esso stesso si è cacciato. Sono tanti i piccoli e grandi Riva in giro per l’Italia.
Anche per questo, non solo vanno valutate seriamente le misure eccezionali di commissariamento dell’intero gruppo, per evitare di veder sfarinare sotto i piedi il difficile sentiero che può tenere insieme lavoro e ambiente. Va rielaborata un’idea di pubblico che orienti politiche industriali finora molto confuse e impacciate. È l’intera siderurgia che va riprogrammata a questo punto, riallacciando insieme nuove relazioni di lavoro (diametralmente opposte a quelle divenute legge sotto i Riva) e nuovi modi di produzione che non devastino l’ambiente. È possibile tenere insieme tutto questo?
La vicenda Ilva sembra pensata apposta da uno scrittore apocalittico per convincere l’Italia intera dell’esatto contrario. Eppure, al di fuori di una soluzione radicale che contempli un’idea di pubblico diversa dagli errori novecenteschi della statalizzazione, non può esserci alcuna via d’uscita. Altrimenti, Taranto e l’Italia saranno avvolte dalla doppia spirale della scomparsa del lavoro industriale e dell’assenza della benché minima bonifica.
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