Da Alfano a Saccomanni Scambio di accuse e rancori

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ROMA — «Prendere o lasciare». È una lastra sottilissima di ghiaccio quella su cui Enrico Letta cammina e lui ha ben chiaro che può spezzarsi ad ogni passo, prima ancora di quel passaggio parlamentare che il premier vede come la sola, possibile carta da giocare. «Vivacchiare non mi interessa. E se devo cadere, voglio cadere in piedi».
Lunedì o martedì al massimo il capo del governo si presenterà alle Camere e chiederà la fiducia, che il Cdm ha autorizzato in via preventiva, su un discorso politico che si annuncia durissimo. Uno «schiaffo» alle forze che si sono impegnate a sostenerlo appena cinque mesi fa, una scommessa che può segnare la ripartenza o la traumatica e prematura fine delle larghe intese. «O si rilancia, mettendo al primo posto gli interessi dei cittadini, o tutti a casa».
Questa è la road map alla quale il premier lavora da quando è salito sul volo che, da New York, lo ha riportato a Roma, gravato dalla dolorosa sensazione di aver subito una coltellata alle spalle: un colpo mortale inferto non a lui, ma al Paese. È arrabbiato, deluso, sconcertato. Ma determinato a giocarsi il tutto per tutto. Dopo il Consiglio dei ministri più burrascoso il presidente del Consiglio pretende un «confronto più duro e netto possibile, definitivo e inequivoco». Con il Pdl e con il Pd. Giudica le dimissioni a orologeria dei parlamentari berlusconiani un atto «incompatibile con una efficace azione di governo», ma quel che più lo addolora è il non potersi fidare fino in fondo nemmeno del suo partito. «Vogliono andare a votare? – si è sfogato con i suoi – Che vadano, ma devono assumersi pubblicamente la loro parte di responsabilità. Lo hanno capito o no che, senza decreto, il primo ottobre scatterà l’Iva?».
Fa il punto con Franceschini, si chiude (da solo) con Alfano e di nuovo (ancora da solo) con Epifani. Sale e scende dal Quirinale e alle otto di sera apre il Cdm, immaginato assieme al capo dello Stato come il primo passaggio formale della crisi. Una riunione di segno politico che, col passare dei minuti, si trasforma in una resa dei conti. Letta apre chiedendo alla sua squadra, in un clima tesissimo, se c’è o no la voglia di proseguire il viaggio. Nervi a fior di pelle, acuti sovrapposti e l’inevitabile rimpallo di responsabilità, tra democratici e berlusconiani, su chi abbia più voglia di staccare la spina. «I problemi del Paese sono enormi e io non sono più disposto ad accettare comportamenti intollerabili — attacca Letta —. La vostra riunione di mercoledì, negli stessi minuti in cui parlavo all’Onu, è stata un piano deliberato e inaccettabile. Avete umiliato l’Italia. È da irresponsabili buttare alle ortiche tutto il lavoro che abbiamo fatto…». Toni accesi con i ministri del Pdl, recriminazioni, un muro contro muro che provoca lo slittamento della «manovrina» e del decreto che doveva congelare l’aumento Iva. Si litiga sui soldi che non ci sono, ci si accusa a vicenda per lo sforamento del tetto del 3 per cento. Alfano minaccia la fine del governo se Letta aumenterà le tasse, finché il ministro Saccomanni sfoga la tensione accumulata: «Ho fatto del mio meglio per difendere i conti pubblici, ma sono mesi che vengo attaccato… Così non ci sto più».
Dopo due ore di scontro la decisione è presa. Su proposta di Letta l’attività del governo viene congelata perché manca un accordo preventivo sulle misure fiscali: c’era ma è saltato perché, ha spiegato il premier, «non si possono impegnare miliardi senza la garanzia che l’attività parlamentare possa continuare». Alfano accusa il Pd di «cecità antiberlusconiana», sostiene che siano stati i democratici a cacciarsi in questo vicolo cieco per le loro tensioni congressuali. E chiede, tra le condizioni per ripartire, la riforma della giustizia e tre mesi di tempo per i guai di Berlusconi. Ma Letta rimanda all’agenda della prima fiducia, dove la questione non compariva: «La mia posizione la conosci Angelino, nessun cedimento sui problemi giudiziari dei singoli». Alfano non abbassa i toni: «Non vogliamo chiarimenti per tirare a campare, non riuscirete a scaricare su di noi il peso della crisi. Senza una verifica sulla giustizia ogni passaggio sarebbe ipocrita». E Dario Franceschini, sferzante: «Ma quale riforma… Volete solo salvare Berlusconi».
Quel «prendere o lasciare» che Letta ha concordato con Napolitano incontrando la massima condivisione da parte del capo dello Stato, è il suo estremo tentativo di salvare la legislatura. Sì, perché il premier non ha in mente «piani b», non vuole arrendersi all’idea di cercare nuove maggioranze per un Letta bis, con il quale riformare (almeno) la legge elettorale, anche per decreto. Il governo è appeso a un filo di ragnatela ma il capo dell’esecutivo ce la metterà tutta per salvare il salvabile. «Ma non presterò il fianco alle minacce e agli au aut», questo ha detto il premier ad Alfano e questo ha ripetuto a Epifani, convinto ormai che le spinte antigovernative arrivino in pari misura dai berlusconiani e dai democratici. Ed è il suo partito la spina più acuminata nel fianco di Letta. Hanno raccontato anche a lui quanto sbrigativa e gelida sia stata la direzione del Pd. Gli hanno riferito di quel passaggio in cui il segretario ha ringraziato Napolitano per il suo impegno, ma ha dimenticato di ringraziare con gli stessi accenti il premier. E certo non gli è sfuggito come Renzi e Cuperlo si siano trovati parallelamente distanti da Palazzo Chigi e vicini al voto anticipato…
Monica Guerzoni


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