Cosa si aspetta l’Europa da Berlino

by Sergio Segio | 24 Settembre 2013 6:38

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Oggi, dopo il plebiscito ottenuto da Angela Merkel, la speranza dell’Europa è che sia lei a fare per l’Unione quel che Adenauer e Kohl fecero per la Germania.
A Bruxelles come nelle altre capitali europee il dopo elezioni tedesco viene seguito con spasmodica attenzione, e nessuno si accontenta delle affermazioni della Cancelliera secondo cui l’Europa resterà nel suo Dna e non ci sarà alcun bisogno di modificare la politica della Germania. Sul primo punto esistevano pochi dubbi. Ma una partita complessa si giocherà sul secondo perché, malgrado la quasi unanime previsione continuista di queste ore, i destinatari della «egemonia riluttante» che scende da Berlino sperano ancora in qualche novità positiva. Di sicuro non clamorosa, certamente non tale da contraddire gli orientamenti dell’opinione pubblica tedesca, ma forse capace di dare un ritmo diverso a quella politica merkeliana del «passo dopo passo» che agli altri membri dell’eurozona è parsa troppo lenta o troppo condizionata dall’appuntamento elettorale soltanto ora vittoriosamente superato.
La prima variabile che potrebbe portare un po’ di aria nuova nella cancelleria di Berlino è beninteso la formazione del governo. Impresa non priva di difficoltà, se si considera che una coalizione della Cdu-Csu con i Verdi richiede sostanziali concessioni reciproche e una Grosse Koalition con la Spd deve far dimenticare ai socialdemocratici che dalle larghe intese in posizione subordinata loro hanno ricavato soltanto danni d’immagine e di voti. Eppure una coalizione nascerà, e il primo interrogativo degli altri europei riguarda proprio questa cambiale che la Merkel dovrà pagare alla governabilità tedesca dopo aver perso per strada gli alleati liberali. La Spd o i Verdi otterranno dalla Cancelliera una linea più solidale verso i partner europei in crisi (come hanno spesso chiesto dai banchi dell’opposizione)? La cura dell’austerità che nessuno rinnega potrà essere addolcita per non uccidere qualche paziente meridionale? Per chi guarda a Berlino, alla vera capitale d’Europa, sarebbe già molto. Ma nell’attesa di verificare la natura della coalizione che vedrà la luce, e soprattutto degli accordi programmatici che ne avranno facilitato la nascita, il ruolino di marcia europeo prevede altre prove rivelatrici (con discrezione, s’intende) delle intenzioni post-elettorali di Frau Merkel.
Una cosa che non cambierà è il concetto della Germania virtuosa e modello d’Europa. Dopotutto la Germania è al minimo storico di disoccupazione, cresce a sufficienza, ha i conti pubblici in ordine, nelle esportazioni viene battuta soltanto dalla Cina, e questo mentre mezzo mondo patisce i rigori della crisi. Sarebbe inumano chiedere ai tedeschi di non considerarsi un modello, di dimenticare i pesanti sacrifici compiuti quando venivano attuate le riforme disegnate da Schröder (mentre altri, Italia compresa, continuavano a produrre debito), oppure di mettere da parte i timori e i disagi che pure sopravvivono oggi in quel 20 per cento di popolazione molto meno fortunata di quanto si creda nel resto d’Europa. Angela Merkel ha soltanto tradotto in politica questo stato di cose, aggiungendo un pizzico di protestantesimo culturale: noi abbiamo sofferto quando è toccato a noi, ora noi siamo forti e tocca a voi fare le persone serie; dunque le regole sono le nostre e questo potrà soltanto farvi del bene. In breve, solidarietà sì (poca) ma in cambio di riforme (molte). Nessuno, al posto della Cancelliera, si sarebbe comportato diversamente. Ed è chiaro che gli eurobond e simili, così come la «Transfer Union» che metterebbe in comune le perdite, sono visioni destinate ad attendere un futuro parecchio lontano.
Ma ce ne sono altre, necessarie e molto vicine. L’Unione bancaria, per cominciare. Fatto il primo passo, la Germania ha sin qui frenato sul decisivo «meccanismo unico di risoluzione» delle crisi bancarie, evocando rischi di incostituzionalità e auspicando modifiche dei trattati. Di tutti i test, questo sarà forse quello più importante. Se da parte tedesca saranno sollevati problemi reali (quello costituzionale lo è) si dovrà giungere rapidamente all’individuazione di una via percorribile. Possibilmente, come chiedono tutti gli altri membri dell’eurozona, prima che la vigilia delle elezioni europee paralizzi di fatto negoziati e decisioni. Se invece l’approccio del «passo dopo passo» resterà fine a se stesso anche dopo le elezioni e rifiuterà l’invito ad accelerare, allora se ne dovrà dedurre che effettivamente a Berlino nulla è cambiato.
Uno schema non troppo diverso varrà per gli stimoli alla crescita e all’occupazione, temi che ci interessano da vicino e sui quali la Germania è stata sinora sin troppo cauta. Non sembra produttivo prendere la questione di petto e chiedere ai tedeschi di cambiare la loro politica economica interna per aiutare la crescita altrui. Malgrado i comuni vantaggi che ne deriverebbero una siffatta politica porrebbe il governo contro quell’opinione pubblica che ha votato Merkel proprio perché soddisfatta della congiuntura attuale in Germania. E qui fa capolino una questione di fondo, la rotta di collisione che spesso si disegna tra provvedimenti anti-crisi e democrazia elettorale. Ma senza rischiare tanto Angela Merkel può comunque fare di più.
E può far avanzare una vera Unione economica che vada oltre il controllo dei bilanci (un punto di convergenza, tra tanti contrasti, con la Francia); può migliorare ancora (perché è già buono, a dispetto della Bundesbank) il rapporto di collaborazione con la Bce; può decidere di essere leader e preparare i tedeschi a nuovi aiuti per la Grecia e forse per altri; può ricordare ai medesimi tedeschi quanti vantaggi hanno ricavato dall’euro, e anche questa è una questione di leadership; può farci capire quanto rimane, in termini realistici, di quell’Unione politica che qualche tempo fa era il suo cavallo di battaglia e che oggi ha assunto piuttosto un volto economico-finanziario. Può, in definitiva, diventare una guida meno riluttante verso l’esterno e meno prudente, o più statista, verso l’interno.
Sperarlo è lecito, anzi è doveroso. Ma pensare che qualche maggiore flessibilità di Berlino consenta ad altri di abbandonare riforme strutturali e rigore nei conti non è una speranza, è un auto-inganno. L’Italia farà bene a ricordarselo, per subito e anche per poter gestire efficacemente il suo semestre di presidenza europea che comincia il primo luglio 2014.
Franco Venturini

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