Congresso pd, accordo vicino

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ROMA — La verità l’ha detta Massimo D’Alema due settimane fa: «Enrico Letta starà con Renzi, perché il sindaco vince». Lui, l’ex premier, nonché ex ministro degli Esteri, sta bene dove sta, invece: a capo di una minoranza del 30 per cento, con Cuperlo candidato segretario. Cioè alla guida di una fetta di Pd che potrebbe andare via, o restare. Il termine scissione d’Alema non lo pronuncia. I suoi sì. Però se l’ex premier punta davvero a presiedere il Parlamento europeo la scissione diventa un problema.
Già, un problema a cui gli stessi renziani pensano: pure loro non escludono che, per dirla brutalmente con uno dei grandi sostenitori del sindaco di Firenze, «i comunisti stiano fuori». Anche se, a dire il vero, la disfida interna al Pd è un po’ più complicata del match Dc-Pci, se non altro perché uno dei contendenti, ossia Renzi, con la Democrazia cristiana non ha mai avuto a che fare, a meno che non si voglia far ricadere le “colpe” dei padri sui figli.
In mezzo, nella disfida tra la ditta di D’Alema e Bersani e gli ulivisti di Renzi, c’è Enrico Letta. Anche se Dario Nardella, ex vicesindaco di Firenze, rifiuta le letture semplicistiche: «È infondato e superficiale vedere il tutto come uno scontro tra i due. Il tema politico vero è: quali sono i pro e i contro di un Pd senza guida, congelato e debole?».
Racconta però il tam tam degli amici del premier che ancora ieri, nell’incontro con Epifani a palazzo Chigi, il presidente del Consiglio abbia chiesto al segretario di scendere in campo per il bene del partito e del governo, e, soprattutto, per stoppare Renzi. Vero? Falso? Possibile che un politico di lungo corso come D’Alema abbia sbagliato la previsione e che Letta si acconci a stare con il Pd perdente? Il premier non risponde e ribadisce che non vuole entrare nella dinamica congressuale. Il segretario tace. Alle 19 e 52 gli arriva un sms di questo tenore: «Sei in lizza? Se non rispondi bisogna prenderlo come un sì?». Il messaggio resta senza risposta e la circostanza aggiunge ambiguità ad ambiguità.
Intanto si continua a litigare sulle regole. Anche se il compromesso è vicino: i segretari regionali non verranno eletti prima del leader nazionale, proprio come voleva Renzi. A meno che — è il suggerimento di Franceschini — non si trovi un accordo tra le correnti: in questo caso si possono anche fare prima. Insomma, se Renzi vuole una stampella importante nel Pd deve fare delle concessioni. Ma il sindaco non ha granché voglia di farle. Si rigira tra le mani il timing delle pratiche congressuali: il 10 novembre la convenzione nazionale, il 24 dello stesso mese il voto delle primarie, il primo dicembre l’acclamazione in Assemblea. È un iter realistico a cui anche i renziani potrebbero dire di sì, con tutto che si sfora di quasi un mese la data del 7 novembre prevista dallo statuto.
Ma altre concessioni non possono farle. Anche perché il Pd è stufo, come dimostra il fatto che in tantissimi appoggiano il documento di Goffredo Bettini che immagina un nuovo centrosinistra e non si schiera nell’attuale contesa. «Noi siamo la corrente dei disgustati», spiega, scherzando ma mica tanto, il sottosegretario Vincenzo De Luca.
Dovrà essere Epifani, ovviamente, il garante di questa mediazione, ma se il segretario diventa parte in causa, allora i termini della questione cambiano. Nel frattempo, comunque, il sindaco di Firenze si muove come uno che non teme il terzo incomodo tra lui e Cuperlo. Lo stesso fa il suo avversario, che ha già affittato una sede per il comitato elettorale a pochi metri da Montecitorio. Solo che mentre il carro di Cuperlo è ancora semivuoto, quello di Renzi appare fin troppo affollato. «Io non imbarco il vecchio: questi li scarico tutti», si sfoga il sindaco di Firenze con gli amici. In pubblico però non arriva a tanto, anche se fa capire che non è disposto ad andare avanti di compromesso in compromesso. Nemmeno sull’esecutivo Letta: «Noi — spiega il sindaco ai suoi — sosteniamo questo governo perché deve fare due tre cose importanti, e per questo lo appoggeremo fino in fondo, ma una volta che le ha fatte, o che è palese che non riesce a farle, la parola deve tornare alla politica…».
Maria Teresa Meli


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