Cina, la terra accaparrata

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PECHINO. La Cina avrebbe chiuso un accordo con l’Ucraina per avere in affitto una zona di terra pari alla grandezza di Hong Kong, per 2,6 miliardi di dollari. Con un accordo di 50 anni, l’Ucraina inizialmente fornirebbe alla Cina 100mila ettari di terreni agricoli «di alta qualità» – espandibili fino a tre milioni di ettari – nella regione di Dnipropetrovsk, adibita a colture e all’allevamento di maiali. Fino a questo accordo, secondo alcuni esperti locali, la Cina aveva poco più di 2 milioni di ettari agricoli all’estero. Il contratto sarebbe stato firmato nel giugno scorso tra la Xinjiang Production and Construction Corps (che ha annunciato l’affare attraverso un comunicato ufficiale) e la KSG Agro, società leader nel settore agricolo in Ucraina. Da notare che la XPCC, nota anche come Bingtuan, è un’azienda statale, nata in seno alle autorità militari, creata per volontà diretta di Mao nel 1954 proprio per difendere i confini sovietici, il cui granaio era l’Ucraina. A confermare gli affari cinesi in zone di ex competenza russa, nei giorni scorsi è arrivata anche la notizia della partenza della collaborazione su gas e petrolio con il Kazakistan.
Riguardo le terre, invece, la società ucraina ha negato che si sia già arrivati ad una conclusione, ma i recenti rapporti tra i due paese farebbero pensare solo ad un eventuale rallentamento. L’anno scorso la Cina ha concesso all’Ucraina un miliardo e mezzo di dollari, in cambio di grano; secondo gli esperti del settore, l’intenzione cinese sarebbe acquisire terreni o finanziare produttori locali per avere grano e carne. Questa operazione racconta molte cose della Cina e dei futuri assetti globali, non solo in termini geopolitici, ma anche in relazione alle risorse. Il passo cinese infatti ha la sua giustificazione in un processo interno di proporzioni storiche che va a intaccare la sua autosussistenza alimentare.
I costi dell’urbanizzazione
Nel 2011 – con il censimento nazionale – la Cina si è scoperta per la prima volta nella sua storia a maggioranza urbana: sono più i cittadini dei contadini, a segnare lo scandire del miracolo economico neoliberista cinese, capace di sollevare dalla povertà 300 milioni di persone, con il risultato di creare nuovi squilibri. Questo cambiamento ancora non è finito, perché la parola d’ordine della nuova dirigenza cinese è infatti urbanizzazione. Non più urbanizzazione delle grandi città dove questi processi sono avvenuti già da tempo, bensì delle città di seconda fascia, dove si dovrebbe annidare la classe media capace di rilanciare il mercato interno e sollevare la Cina dalla dipendenza della produzione per l’export. Con la Cina si ha sempre a che fare, naturalmente, con processi mastodontici: entro il 2025 il governo vuole che il 70% dei suoi abitanti viva in città. Per raggiungere questo obiettivo, 250 milioni di persone dovranno spostarsi nei prossimi dodici anni. Questo immane processo va a scontarsi con quello che da sempre è uno dei nodi più densi da sbrogliare per chi governa la Cina: la terra e con essa i contadini e la sussistenza economica del paese. La questione è molto chiara: l’unica entrata fiscale possibile per le amministrazioni locali cinesi è sempre stata la terra. Sottrarre terra ai contadini, per dare vita a speculazioni edilizie (come dimostrano alcune città fantasma) è stata la principale fonte di entrate economiche e ha finito per portare il land grabbing interno a conseguenze dirompenti. Da un lato i contadini sono diventati proletari nelle grandi città (senza alcuna copertura in termini di sanità e istruzione), dall’altro manca la terra, buona e non inquinata dal processo di urbanizzazione, per le coltivazioni agricole e gli animali. Inoltre cambiano i costumi e le necessità: anche se la produzione di grano nazionale della Cina è cresciuta per 10 anni consecutivi, secondo gli esperti la domanda di cereali importati è aumentata, perché si è innalzato il benessere dei cittadini; così la Cina solo nel 2012 – anno del raccolto record per l’agricoltura locale – ha importato quasi 14 milioni di tonnellate di cereali e farine di cereali con un incremento di oltre il 150 per cento dal 2011. La Cina rimane un grande paese in termini di produzione agricola, che contribuisce al 10 percento del PIL e impiega 300 milioni di persone, è al primo posto al mondo nella produzione di cotone, riso, maiale, ma allo stesso tempo è il principale importatore al mondo di prodotti agricoli (e l’Ucraina è uno dei primi dieci esportatori di cereali del mondo).
Alla ricerca del cibo
Il Gruppo Beidahuang, uno dei principali operatori nel settore agroalimentare, ha acquistato 234mila ettari per coltivare semi di soia e mais in Argentina, mentre la Chongqing Grain ha pagato 375 milioni di dollari per le piantagioni di soia in Brasile e 1,2 miliardi di dollari per i terreni in Argentina per coltivare semi di soia, mais e cotone. Ed è proprio in America Latina che la Cina sta puntando la propria attenzione: nei giorni scorsi a Pechino è stato ricevuto con tutti gli onori Maduro, presidente del Venezuela, con cui la Cina ha stretto dodici accordi che riguardano petrolio, ma anche il settore agricolo. Pechino inoltre, fin dagli anni Sessanta, ma con un recente e significativo aumento, ha posto la propria attenzione in Africa, anche se il processo di land grabbing tanto annunciato dai media, viene contrastato da alcuni studiosi, che non negano gli investimenti cinesi, ma non li ritengono degni di essere «demonizzati» dai media stranieri. Debora Brautigam, ad esempio, professoressa alla John Hopkins University e autrice de Il dono del Drago, la vera storia della Cina in Africa, ritiene che l’esproprio terriero africano a scopi commerciali da parte della Cina, sia «un mito». Attraverso uno studio la professoressa avrebbe preso i principali 25 investimenti agricoli cinesi in Africa e «li abbiamo studiati a fondo per capire se erano realmente significativi. Di tutti questi rapporti solo quattro erano investimenti diretti e solo due di questi erano di dimensione significativa». Sulla stessa lunghezza onda è un report della Siani – Stockholm Environment Institute – che testimonia come gli investimenti cinesi, che avvengono in cambio di infrastrutture, siano ancora minori rispetto a quelli di India, stati arabi, europei e Stati Uniti.
Acquisizioni straniere
Chi Shuchang (1922 – 1997) oggi è ricordato come lo scrittore che con un racconto fantastico – scritto nel 1958 – seppe tratteggiare il sentimento comune della Cina e dei cinesi durante il Grande Balzo in avanti. Nel suo racconto «L’elefante con la proboscide tagliata» (gediaobizi de daxiang) Chi Shuchang descrive l’ideazione e la successiva creazione da parte di un villaggio, di un maiale gigantesco grande come un elefante, curato e gestito in modo da soddisfare l’esigenza di carne di più gente possibile. Il maiale infatti è il cuore dell’alimentazione cinese, da sempre considerato una sorta di sinonimo di «cibo»: secondo alcune statistiche ogni cinese consumerebbe ogni anno circa 20 chili di carne di maiale. La sicurezza alimentare cinese però è in panne da tempo – basti ricordare le migliaia di carcasse di maiali trovati nei fiumi – e per questo la Cina, quando non compra terre, compra direttamente i produttori. E’ quanto successo con l’acquisizione della Smithfield Foods Inc. da parte della Shuanghui, il più grande trasformatore di carne in Cina. L’intento è il consueto: acquisire per strappare know how, perché la produzione del maiale in Cina è frammentata, con pochi controlli e con una legislazione che non favorisce gli allevatori. Quando venne fuori lo scandalo delle carcasse di maiali morti, infatti, si scoprì che non esisteva alcun meccanismo attraverso il quale il governo cinese può compensare gli allevatori di suini in modo da controllare la diffusione delle malattie o rimediare alle perdite. A peggiorare le cose, ci pensano le compagnie di assicurazione che non garantiscono gli allevatori dei suini, visti gli elevati rischi di malattia. E così dato che al mercato i margini per la carne di maiale sono minimi e gli agricoltori non vogliono spendere soldi per bruciare o seppellire gli animali morti, le acque dello Huangpu dove sono stati buttati i maiali, hanno offerto un’alternativa macabra, ma allettante.


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