CILE 1973 La dittatura dei Chicago boys

by Sergio Segio | 11 Settembre 2013 8:05

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E’ stato il primo esperimento, sulla pelle del popolo cileno, del modello di «neoliberismo autoritario» diventato dominante nel nuovo secolo.
Come è noto, un ruolo importante l’hanno ricoperto i Chicago boys della scuola monetarista di Milton Friedman. Chiamati da Pinochet come consulenti hanno disegnato le linee di politica economia e sociale necessarie per implementare le teorie del caposcuola, Nobel per l’economia nel 1977 , che -come scrisse il Comitato svedese per gli assegnò il premio- è stato un raro esempio di un economista che abbia influenzato la politica almeno quanto l’Accademia. In effetti, la sua produzione scientifica è conosciuta solo dagli addetti ai lavori, e non presenta delle novità sconvolgenti rispetto al pensiero di Marshall e di Stuart Mill, mentre i suoi testi politici -come il best seller “Liberi di scegliere”- hanno avuto un grande impatto sull’opinione pubblica e sul rilancio della destra statunitense prima, e del mondo intero dopo.
La situazione cilena offriva una condizione ottimale per dimostrare al mondo come il neoliberismo fosse la cura migliore per far uscire dalla crisi un paese come il Cile stremato da anni di recessione economica e di lotte sociali. Grazie all’eliminazione della democrazia si potevano facilmente rompere i vincoli istituzionali, lacci e lacciuoli sindacali, e contenere le rivolte ed il malcontento che inevitabilmente sarebbero scoppiati di fronte alle cure da cavallo del governo Pinochet. I Chicago boys vedevano la dittatura come un utile strumento per riportare velocemente il paese verso la crescita economica, per rilanciare lo sviluppo. A questo fine, venne implementato un programma ambizioso di drastiche privatizzazioni di aziende e beni dello Stato, di riforma del mercato del lavoro che rendeva perfettamente “flessibile” la forza-lavoro (il sogno di Marchionne!), di totale apertura all’estero, sia in termini di import/export che di libera circolazione dei capitali in entrata ed uscita. Gli effetti sociali, culturali, ed economici si manifestarono chiaramente nel corso dei primi anni ’80. Una parte maggioritaria della società cilena subì un vistoso processo di impoverimento che colpì i lavoratori (con l’aumento della disoccupazione e con l’abbassamento dei salari), una parte rilevante del ceto medio, soprattutto intellettuale, e le minoranze etniche (i Mapuche) brutalmente espropriate della terra e ghettizzate. La mercatizzazione della società raggiunse livelli parossistici, tragicomici, demenziali.
Tre esempi. La liberalizzazione delle farmacie e dei prezzi dei farmaci (Bersani le avrebbe chiamate “lenzuolate”?) portò i gestori delle farmacie a offrire -con grande pubblicità- due antibiotici al prezzo di uno, una scatola di aspirina in regalo per chi spendeva un tot… La privatizzazione totale dei trasporti pubblici, comportò che gli autisti dei micro, come si chiamano gli autobus a Santiago, assunti a cottimo sui chilometri effettuati giornalmente divennero il terrore dei pedoni che attraversavano le strade. La possibilità di non indicare più nelle etichette il contenuto di cibi e bevande, in nome della libertà dell’impresa, comportò casi drammatici di intossicazione.
Ma, ancora più forte fu l’impatto culturale, ideologico, di questa dittatura neoliberista in cui il Mercato era diventato la sola ed unica religione. Più di una volta, agli inizi degli anni ’80, mi capitò a Santiago di incontrare e discutere con lavoratori che avevano interiorizzato le ricette neoliberiste. Mi viene in mente, fra gli altri, un tassista che mi raccontò di come fosse stato un impiegato di banca e fosse diventato “superfluo” e quindi “giustamente” licenziato. Ora era felice perché si era inventato un lavoro. Era lo slogan del regime: dobbiamo essere tutti autosufficienti, imprenditori di noi stessi.
Infine, sul piano economico, è indubbio che, a partire dal 1976, il Pil cominciò a salire annualmente a tassi sostenuti- tra il 6-8 per cento- e questo dato divenne la bandiera di tutta la cultura neoliberista, l’indicatore del successo della scuola di Friedman. Dopo la chiusura delle miniere di rame, di molte fabbriche che vivevano sulla domanda interna, si crearono delle nuove aziende agro esportatrici (soprattutto frutta e vino) che ebbero una corsia preferenziale di ingresso sul mercato nordamericano. I capitali, godendo di totale libertà, arrivarono nel paese per investire nei settori più redditizi (dall’agro- business al turismo) ed il Fondo monetario internazionale aiutò con ingenti prestiti il governo Pinochet, mentre aveva negato qualunque aiuto finanziario al presidente Allende.
Dopo la caduta di Pinochet il modello neoliberista continuò, con piccoli ritocchi, per molti anni ed è ancora presente nella società cilena,malgrado l’arrivo al governo della socialista Bachelet. Questo fatto non deve stupire, ma ci deve interrogare perché anche noi ci stiamo incamminando sulla stessa strada.
La crisi economica-finanziaria e la sua gestione hanno prodotto un abbassamento radicale delle aspirazioni, delle aspettative di decine di milioni di persone in Italia, come nella gran parte dei paesi europei. La crisi sta funzionando come ferrea disciplina, nell’accezione di Foucault , per rendere possibile il predominio del mercato capitalistico, per rendere totalmente flessibili i lavoratori, per smantellare definitivamente il welfare ed i diritti sociali conquistati in decenni di lotte. Questa crisi ha funzionato come un surrogato della dittatura che in Cile rese possibile accelerare questi processi e portarli a compimento. Ma, l’impoverimento e la perdita di diritti non è ancora completata. Per arrivare al risultato cileno bisogna mettere le mani alla Costituzione, avere il presidenzialismo, unitamente a leggi che colpiscano alla radice i movimenti (come già sanno i militanti del No Tav) . Insomma, bisogna indebolire la nostra democrazia senza bisogno dei generali, per arrivare magari ad avere quella “crescita” sbanderiata come unico fine della società, unico senso della vita, dal governo delle “larghe intese neoliberiste”.
Per questo la battaglia per la difesa della Costituzione vede in prima linea un sindacato come la Fiom perché è ormai chiaro l’intreccio tra la difesa della democrazia costituzionale e la difesa dei posti di lavoro, della dignità del lavoratore e del diritto alla vita di precari e disoccupati.

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