“Chrysler a rischio senza la fusione con Fiat”

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TORINO — Extra Fiat, nulla salus: senza l’alleanza con Fiat, Chrysler rischia il suo futuro. Nelle pieghe del modello S1, 398 pagine consegnate alla Sec per annunciare un possibile sbarco a Wall Street imposto dal socio di minoranza Veba, Sergio Marchionne cala l’asso della sua partita a poker con il sindacato americano. E, con il cappello di ceo di Chrysler fa scrivere ai suoi funzionari di Auburn Hill che «Fiat ci ha informato di stare valutando tutti gli impatti potenziali che un’offerta pubblica potrebbe avere sui suoi progetti relativi all’alleanza con Chrysler e in questo ambito sta valutando se continuare o meno l’espansione dell’alleanza al di là degli impegni contrattuali esistenti». Parole pesanti. Per la prima volta dall’aprile 2009, il Lingotto mette in discussione in un documento pubblico la strategia di fusione con Detroit. Per chiarire ulteriormente, il testo afferma che «se Fiat non lavorerà con noi (Chrysler n.d.r.) oltre gli obblighi contrattuali esistenti, potrebbe verificarsi un sensibile effetto negativo sulle nostre prospettive di business, le condizioni finanziarie e i risultati dell’attività».
Raramente è dato vedere una società che annuncia l’intenzione di andare in Borsa con queste premesse deprimenti. Ma non è una stranezza. Da un anno è in corso il braccio di ferro tra Fiat e Veba sul valore del pacchetto del 41,5 per cento di azioni ancora in mano al fondo sanitario del sindacato. La prima mossa l’aveva fatta, a settembre 2012, la Fiat chiedendo che fosse il tribunale a stabilire il valore di quelle azioni. Secondo il calcolo più recente, per il Lingotto quei titoli valgono meno di tre miliardi di dollari, secondo il Veba il valore è superiore a 5. Il tribunale si è perso in lungaggini e difficilmente darà la sua risposta in tempi brevi. Contemporaneamente anche Veba ha fatto la sua mossa chiedendo di portare in Borsa il 16 per cento di quelle azioni. Se non decide il giudice, era il ragionamento, che lo faccia il mercato. Passo che non piace a Marchionne ma che il Lingotto è costretto a compiere un base agli accordi. Quotare Chrysler in Borsa prima di fonderla con Fiat significa infatti esporsi al rischio che nel capitale si intromettano soci forti disposti a dettare le loro condizioni sulla fusione. Così, lunedì notte, i funzionari Chrysler hanno dovuto bere l’amaro calice presentando a Sec, la Consob americana, il prospetto per la quotazione. Ma nella parte dedicata ai «risk factors» hanno calcato la mano spiegando che l’eventuale quotazione di Chrysler oggi potrebbe rivelarsi un disastro fino a mettere in discussione l’alleanza tra Torino e Detroit.
Con queste premesse la quotazione parte molto in salita. Perché se mai si arrivasse a portare a Wall Street le azioni Chrysler oggi in mano a Veba, chi mai comprerebbe una quota di minoranza di una società governata al 58 per cento da un socio ostile? Forse quel pacchetto (che potrebbe
anche essere superiore al 16 per cento annunciato a gennaio da Veba) finirebbe per fare gola a chi volesse trattare sul prezzo al momento della fusione. Ma molti osservatori sono ormai convinti che la ventilata Ipo di Chrysler sia solo un ballon d’essai.
Fallita la strada giudiziaria e quella dell’Ipo, potrebbero essere gli esperti di finanza, analisti e banchieri, a fare un prezzo in grado di sbloccare la trattativa di Detroit. Nel frattempo la procedura rischia di chiudere la bocca a Marchionne. Le regole Usa impediscono infatti di parlare di una società che sta per essere quotata.


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