Al bando i Fratelli musulmani Confiscati anche i loro beni

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I Fratelli musulmani da ieri sono tornati in clandestinità. «Questa corte vieta le attività della Fratellanza e di ogni istituzione che ne derivi o riceva assistenza finanziaria da essa», ha annunciato ieri un tribunale del Cairo. Non solo: «Ordiniamo la confisca di tutti i fondi, beni e immobili della confraternita». Nel verdetto non è esplicito ma è ampiamente ritenuto che la messa bando si estenda non solo al movimento e alle sue molte organizzazioni sociali, ma pure al partito Libertà e giustizia, che per un anno aveva retto il Paese fino alla deposizione del presidente islamico Mohammad Morsi lo scorso 3 luglio. Esplicito è invece l’ordine di requisire l’immenso impero dei Fratelli, costituito da scuole, ospedali, opere caritatevoli e business vari che da decenni forniscono al movimento importanti finanziamenti e un ampio consenso popolare. La Fratellanza ha annunciato che farà appello, ma le sue possibilità sono minime.
Il giro di vite era infatti nell’aria. Ed è un ulteriore passo avanti della restaurazione guidata dal generale Abdel Fattah Al Sisi, capo del Supremo Consiglio delle Forze Armate e reggente de facto dell’Egitto, appoggiata dalla maggior parte del Paese. E non solo dai «mubarakiani», che da poco hanno festeggiato il rilascio dell’ex dittatore, scagionato da una condanna all’ergastolo per i quasi mille morti della Rivoluzione del 2011. A schierarsi contro i Fratelli, tre mesi fa come oggi, sono tutti i partiti «laici», sinistra compresa. Non a caso la richiesta di vietare i Fratelli è stata avanzata dal Tagammo, storica formazione socialista. «Certo che siamo stati noi — conferma dal Cairo Farida Naqqash, del direttivo — La legge vieta i partiti religiosi e le milizie militari. L’abbiamo fatto per difendere l’Egitto, non per istigazione di Al Sisi. Tutti sono d’accordo con noi».
Se non tutti, di sicuro molti. La messa al bando del più importante movimento dell’Islam politico, fondato nel 1928 e proibito per 61 dei suoi 85 anni di vita, avviene dopo che il Paese si era rivoltato in giugno contro la sua gestione fallimentare (per alcuni «criminale») del potere. Dopo l’intervento di Al Sisi che tecnicamente è stato un golpe, ma che molti hanno chiamato «seconda Rivoluzione» perché sostenuta dal «popolo». E dopo una repressione durissima da parte dei militari: sono più di mille i sostenitori della Fratellanza da loro uccisi negli scorsi mesi. Oltre duemila sono i Fratelli, tra cui quasi tutti i dirigenti, in carcere con accuse gravissime. Per Morsi, che ancora non si sa dove sia, soprattutto quella di «istigazione all’omicidio».
La speranza della coalizione militar-politica che amministra la transizione è che la Fratellanza «ora torni nell’ombra ma molto più debole», come ha dichiarato Abdullah Moghazi, consulente legale dei generali. Escluso dalla costituente che cerca di stilare una nuova Carta, come lo sarà dalle elezioni previste nel 2014, con i leader in cella, il movimento potrebbe però trovarsi allo sbando, con un rafforzamento dell’ala più dura. «Torneranno nell’ombra, certo, ma così potranno praticare odio e violenza: è un verdetto sbagliato», scriveva ieri su twitter l’attivista per i diritti umani Gamal Eid. Lo stesso premier ad interim Hazem Beblawi recentemente si era opposto a un simile passo, proponendo invece un «monitoraggio» del partito islamico.
Anche perché la normalità è ancora molto lontana in Egitto. Le odiate leggi speciali di Mubarak, che consentono tra l’altro ai militari di arrestare chiunque, sono state reintrodotte per almeno due mesi. La paura, nonostante la fine delle proteste di massa, resta nell’aria; scontri e attacchi continuano. L’economia è un disastro: i 12 miliardi di dollari elargiti da sauditi e alleati sono serviti finora per ridarne due al Qatar, grande sponsor della Fratellanza; la miseria è ancora estesa e profonda. Soprattutto, la Fratellanza non si arrende: «Esistiamo a prescindere dai divieti — ha detto ieri un ex ministro di Morsi, Ahmed Mekki — Come Israele: molti Paesi arabi non lo riconoscono ma questo cambia qualcosa per Israele? La risposta è no».
Cecilia Zecchinelli


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