Dall’Olocausto alle frasi su Twitter Rouhani e l’arte delle «due versioni»

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Hassan Rouhani, presidente moderato d’Iran, è rientrato ieri a Teheran accolto da centinaia di sostenitori che salutavano il disgelo con gli Stati Uniti e il mondo, o almeno il suo inizio, gridando «Sì alla pace, no alla guerra». Subito dopo un gruppo di oppositori gli ha invece tirato uova e sassi, perfino una scarpa, urlando «Morte all’America». Immagini simbolo della divisione del Paese e delle difficoltà che attendono in patria il successore di Ahmadinejad, dopo la maratona diplomatica che lo ha visto debuttare all’Onu di New York insieme alla nuova strategia della Repubblica Islamica. Un’inedita politica basata sull’apertura all’Occidente (il tempo dirà quanto sincera e proficua), consacrata dalla storica telefonata del presidente Barack Obama al leader iraniano poche ore prima. A dare notizia di quella chiamata dallo Studio Ovale, mentre la limousine di Rouhani correva all’aeroporto Jfk, era stato un tweet sull’account del leader iraniano (non scritto né controllato da lui, peraltro), seguito da molte frasi della conversazione durata 15 minuti. Frasi però sparite nelle ore successive. Nemmeno la tv di Stato ha dato notizia della chiamata. Più che mirare a tenere la gente all’oscuro (anche in Iran ormai si sa tutto), la censura indica le difficoltà del regime nel gestire la svolta, lancia un segnale che niente è ancora deciso nè definitivo. Altri piccoli indizi, per restare nell’ambito della comunicazione, lo confermano.
Come il fatto che Rouhani, appena arrivato a Teheran, abbia detto alla stampa locale che la telefonata era stata un’«iniziativa americana» non sollecitata. Cosa smentita da fonti dell’Amministrazione Usa: il presidente Obama ha fatto quella chiamata quando gli iraniani avevano manifestato disponibilità a parlare al telefono dopo aver invece respinto un più delicato incontro bilaterale, con tanto di stretta di mano sotto ai riflettori. Ma nemmeno sollecitare una telefonata del «Grande Satana» sarebbe stato accettabile per i «falchi» di Teheran, capeggiati dai Pasdaran o Guardiani della Rivoluzione, che ieri hanno infatti commentato la telefonata (nella versione corretta) definendola una prova dell’«importanza dell’Iran». Gli stessi Pasdaran, creati da Khomeini come esercito rivoluzionario e poi diventati Stato nello Stato con aziende, commerci, interessi enormi, avevano sollevato una tempesta per l’intervista concessa da Rouhani alla Cnn . Il network aveva tradotto in inglese le parole dell’iraniano attribuendogli il termine «Olocausto», accanto alla condanna per i crimini nazisti. Ma quella parola Rouhani non l’aveva detta, sostenevano i Pasdaran. E in effetti, è poi emerso, è stato un errore della Cnn. Perché prendersela tanto? Questione di lana caprina? Non tanto: dopo otto anni di Ahmadinejad che l’Olocausto lo negava o di cui comunque dubitava, una svolta a 180 gradi sarebbe clamorosa. E va digerita in Iran. Dove come sempre, al di là della visibilità dei suoi presidenti, il grande regista di tutto è la Guida Suprema Ali Khamenei. L’onnipotente successore di Khomeini dopo la rottura con il suo ex protetto Ahmadinejad ora ha deciso di puntare sui moderati, sperando nella fine delle sanzioni che sempre di più pesano sull’economia e sulla stabilità del regime. Ma con cautela e attenzione, ovvero con ambiguità.
Cecilia Zecchinelli


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