È il fallimento dell’Italia Spa aziende gestite male e svalutate così gli stranieri corrono ai saldi

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PRIMA pagina della sezione economica di Repubblica di ieri: “Telecom in mano agli spagnoli”; seconda: ”Trattativa con Air France … Alitalia in picchiata”; terza: ”Ansaldo, baluardo Cdp contro coreani e giapponesi”. Titoli analoghi, negli ultimi tempi, a proposito della vendita di Bulgari, Loro Piana, Parmalat, Avio. Ma chi pensasse che il vero problema dell’Italia oggi sia la colonizzazione delle nostre grandi aziende, si sbaglierebbe due volte.

GLI stranieri comprano, e a prezzo di saldo, perché le nostre aziende valgono poco; e valgono poco perché sono state gestite male per troppo tempo dagli italiani, e non reggono più la concorrenza in un mondo sempre più aperto. Il problema dunque è tutto nostro. Lo abbiamo creato con la nostra incapacità. Lo straniero alle porte è la conseguenza, non la causa.
Le nostre aziende riescono a essere competitive finché dominano una nicchia, troppo piccola per essere aggredita dai grandi gruppi internazionali. Ma la dimensione della nicchia finisce per limitare quella delle imprese. I tentativi di espansione fuori dai confini, spesso finisce con una Caporetto (Rcs, Fininvest, Enel, Finmeccanica, Indesit, DeAgostini). Meglio quindi restare a casa, e operare in settori protetti dalla concorrenza estera grazie a concessioni, licenze o regolamentazione nazionale; e dove le relazioni con la classe politica locale e nazionale sono indispensabili: banche, assicurazioni, energia e servizi di pubblica utilità, autostrade e trasporti, giochi e scommesse, immobiliare. Aziende grandi, capaci di crescere fuori dai confini, reggere la concorrenza e acquisire una posizione rilevante nel mondo, ce ne sono anche da noi, ma bastano le dita delle mani a contarle: Fiat Industrial e, forse, Auto, Luxottica, Autogrill, Prysmian, Generali, Eni e qualche altra. Troppo poco per un paese di 60 milioni di abitanti. L’incapacità di crescere delle nostre imprese ci esclude dai settori che beneficiano maggiormente dalle economie di scala, che spesso sono anche quelle a maggior crescita della produttività (e quindi dei salari che pagano): tecnologia, farmaceutica e apparecchiature sanitarie, engineering e costruzioni, informatica, grande distribuzione, e ora anche lusso e tempo libero.
Il problema poi non è lo straniero, ma lo straniero sbagliato: troppo spesso non si vende a quello che paga di più o a chi è meglio in grado di espandere l’azienda. Si grida allo scandalo per Telefonica in Telecom. Ma Telefonica è arrivata a dieci anni dalla privatizzazione, dopo che vecchia e nuova aristocrazia imprenditoriale (Agnelli, Colaninno, Tronchetti Provera) erano solo riuscite a ridurre il valore di Telecom e aumentarne il debito. Telefonica in Telco, poi ce l’hanno portata, e hanno stretto un patto per comandare, la Banca Intesa di Bazoli e Passera, la Mediobanca di Nagel e Pagliaro (e allora Geronzi) e, le Generali di Perissinotto. Ben sapendo che Telefonica, essa stessa piena di debiti e acerrimo concorrente in Brasile, sarebbe stato il peggior socio straniero. L’hanno fatta entrare nella stanza dei bottoni senza che pagasse un euro di premio al mercato, e garantendole di fatto un’opzione a prendersi il controllo futuro a un prezzo risibile. Che Telefonica, infatti, esercita oggi a poco più di 1 euro per azione; azioni che era stata disposta a pagare 2,9 euro sei anni prima. Le banche però sono felici: l’operazione di sistema ha generato perdite colossali, ma almeno rientrano dai prestiti a Telco e si garantiscono l’uscita a 1,1 euro, incassando più dei 60 centesimi di valore del titolo in Borsa. Un ultimo calcetto negli stinchi del povero risparmiatore.
Da azioniste di controllo, le nostre banche hanno poi nominato un vertice, un autorevolissimo consiglio di amministrazione e un management che in sei anni non è riuscito a prendere nessuna decisione su rete, investimenti all’estero, dismissioni, o ristrutturazioni finanziarie; ma ce ha ne ha messi altrettanti per dismettere le televisioni, sebbene irrilevanti per il bilancio della società. E Telecom è l’unica telefonica al mondo, che è riuscita a perdere la leadership a favore di un concorrente (Vodafone), pur partendo da una situazione di monopolio.
La colpa non è degli spagnoli. Una felice operazione di sistema fatta, immagino, per guadagnare crediti nei confronti di un Governo, allora guidato da Prodi, che voleva difendere gli “interessi nazionali”. Ma in questo, colore del Governo e /o nome del primo ministro fanno poca differenza, come i casi di Alitalia e Finmeccanica stanno a dimostrare.
Non credo all’ingenuità dei politici. Dietro gli “interessi nazionali” c’è la difesa dei sindacati, che vogliono l’azionista di riferimento italiano perché meno determinato a ristrutturare e tagliare posti di lavoro, anche se c’è capacità in eccesso, il settore è in declino, e l’azienda inefficiente. Fattori che portano poi l’azienda al declino; ma il nostro sindacato non brilla per lungimiranza. C’è la difesa delle tante piccole imprese fornitrici che gravitano intorno alle grandi, ma che non hanno le dimensioni e l’efficienza per essere concorrenziali nel mondo; a rischio di sostituzione se arriva lo straniero che vuole standard internazionali. E soprattutto la difesa della propria capacità di influenzare: e se l’azionista straniero non risponde alle loro telefonate? O non si precipita in visita pastorale a Roma?
La storia di Alitalia è identica. Manager dopo manager, tutti di nomina politica, portano l’azienda allo sfascio. Il Governo Berlusconi (ipotecando i soldi dei contribuenti) interviene con un’operazione di sistema per difendere “gli interessi nazionali”. La solita Banca Intesa si presta a finanziarla. I soliti imprenditori patrioti (Riva, Ligresti, Benetton, Colaninno, Tronchetti, Marcegaglia) rispondono all’appello per ingraziarsi il potente di turno a Roma; ma sono poi incapaci di gestire l’azienda. La solita brillante idea di far entrare con uno strapuntino uno straniero “gradito” (Air France), garantendogli però un’opzione al futuro controllo. Questi, poi, la esercita, ma a una frazione del prezzo che avrebbe pagato al momento dell’ingresso (si è preservato però la facciata della difesa della nazionalità). E la solita scelta sbagliata, perché ora anche Air France è in difficoltà; ma ormai è dentro.
Con Finmeccanica il copione non cambia. Ho ritrovato un mio articolo di 14 anni fa (Corriere, 26 settembre 1999) in cui scrivevo: “Il Governo ha annunciato una privatizzazione (Finmeccanica) attraverso un’operazione che di fatto blinda il controllo pubblico di due società; si maschera un aiuto di Stato; si evitano ristrutturazioni sgradite ai sindacati; e si fa un passo avanti nella politica dei campioni nazionali. Finmeccanica è un conglomerato di imprese, messe assieme senza troppa logica industriale, sommersa dai debiti e perdite. Per risollevarsi deve concentrarsi nei settori dove può essere concorrenziale e redditizia, e uscire da quelli (energia,
trasporti) che nulla hanno a che fare con la sua attività principale, e dove è troppo piccola o troppo inefficiente per competere”. Da allora non è cambiato nulla: Finmeccanica continua ad essere mal gestita, da manager pubblici che l’hanno ridotta in questo stato, in crisi finanziaria, incapace di
ristrutturare; e non riesce ancora a vendere treni ed energia (Breda, Sts, Ansaldo) per paura di svendere allo straniero. Allora c’erano D’Alema e Bersani al Governo. Ma non mi sembra ci sia una grande differenza con il Governo attuale. Oggi però non si può più contare sulle banche per una soluzione di sistema, perché sono a loro volta in crisi. Avanti quindi con l’idea di utilizzare la Cassa DP al loro posto. Così si ritorna all’Iri, e il cerchio si chiude.
È il fallimento di Italia S. p. a. Inutile scatenare la caccia ai colpevoli. Lo sono tutti: governi e ministri, banchieri, imprenditori nobili e meno nobili, sindacati. Ci vorrebbe una Norimberga per i crimini contro il capitalismo in Italia: ma forse l’Europa e i mercati ci stanno già giudicando.


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