L’altolà del premier

by Sergio Segio | 20 Settembre 2013 8:50

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L’avvio della fase 2 delle larghe intese, dopo il videomessaggio del Cavaliere, s’impone anche in vista del passaggio decisivo per il destino del governo: il varo della legge di stabilità.

«NON accetterò l’aut aut quotidiano mentre si discute la politica economica dell’esecutivo. Risponderò colpo su colpo. Non mi basta il congelamento della crisi, come pensa Berlusconi. Abbiamo bisogno di andare avanti senza condizionamenti. Da adesso l’agenda la dettiamo noi».
Iva, taglio del cuneo fiscale, una possibile scelta forte sulle rendite finanziarie sono passaggi che il premier vuole usare per svelare il bluff del leader del Pdl e sterilizzare le sue provocazioni politiche – come gli attacchi ai pm – nei confronti del Partito democratico. «Andiamo a vedere se riesce davvero a staccare la spina». Letta è convinto che il Cavaliere non abbia né la forza né la convenienza di farlo. Ma la stabilità garantita dal Cavaliere va tradotta anche nelle parole e nei comportamenti dei suoi luogotenenti. «Assistere a un altro dibattito pubblico come quello sull’Imu, beh sarebbe inaccettabile».
Sulla scrivania del premier passano sondaggi quotidiani incoraggianti. «Sono di vari istituti e i risultati convergono ». A parte il gradimento personale (in crescita secondo Palazzo Chigi), dimostrano che gli italiani «vogliono essere governati, chiedono delle risposte. Ora ci siamo noi e le pretendono da questo esecutivo, dalle larghe intese. Lasciarle inevase farebbe pagare un prezzo all’Italia. E a tutti i partiti della maggioranza». Letta vuole concentrarsi sulle ricette economiche e non può stare dietro alle provocazioni quotidiane. Non vuole. Anche perché la partita della legge di stabilità si annuncia tutt’altro che semplice anche fuori della lotta giornaliera con il centrodestra. Alcuni fedelissimi del premier gli consigliano di non seguire esclusivamente la linea rigorista che invoca Mario Monti e che adesso viene abbracciata dal ministro del Tesoro Fabrizio Saccomanni. «Ci vuole il coraggio di lasciare
un segno politico sull’economia. Non affidiamoci soltanto alla linea ragionieristica », è la voce di qualche consigliere di Palazzo Chigi. Stavolta però il Pd, in piena corsa congressuale, si prepara a contrastare altre “vittorie” (vere o presunte che siano) del fronte berlusconiano. Occorre uno sforzo di mediazione dunque per uscire dalla trappola di un doppio pressing nel quale Berlusconi è sicuro che prima o poi Letta dovrà cadere.
«Mi raccomando — ha suggerito il Cavaliere ai suoi rappresentati al governo — , da voi mi aspetto un monitoraggio costante sui temi economici. Controllate tutto. Quei ministeri sono in mano al Pd o ai tecnici. Occhi aperti e non mollate».
Le misure economiche sono il grimaldello per istituire una crisi permanente e costruire una campagna elettorale senza elezioni. «Il governo si logora da solo — ripete Berlusconi ai suoi —. Deve trovare tanti di quei miliardi da qui a dicembre che andrà in tilt da solo. Io non stacco la spina, non avrebbe senso». La strategia dell’immobilismo è oggi il nemico del presidente del Consiglio e della sua voglia di «attaccare». Al Cavaliere invece serve anche per risolvere la sua vicenda personale. «A me piace l’idea del colpo di teatro. Vorrei dimettermi prima del voto dell’aula. Non dò a Grillo e al Pd la soddisfazione di cacciarmi fuori dal Parlamento». Ma la tentazione scenica contrasta con le carte bollate che ancora regnano nelle stanze di Arcore. Le dimissioni infatti smonterebbero il castello del ricorso alla Corte europea. Valido solo se si arriva al voto sulla decadenza in base alla legge Severino. Berlusconi, insomma, è ancora nelle mani degli avvocati.
La sua “agibilità politica” è affidata alla nuova (vecchia) creatura di Forza Italia. Uno strumento che nasce con il preciso intento di provocare il Partito democratico e farlo esplodere sull’altare della Grande coalizione. Non reggerà, è la scommessa del Cavaliere, impegnato com’è nella battaglia del congresso. Non si può dire che Letta la pensi molto diversamente. Nel pranzo con Guglielmo Epifani ha chiesto soprattutto garanzie sui tempi. «Il congresso si deve fare non prima del 15 dicembre». In modo da non dare al probabile vincitore Matteo Renzi il tempo di organizzare un’offensiva anti-governo a gennaio-febbraio. Così Palazzo Chigi chiuderebbe la finestra elettorale della prossima primavera, così vedrebbe la luce del 2015.

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