by Sergio Segio | 18 Settembre 2013 16:13
La ragione che hanno spinto Stefan Petrut a lasciare la Romania per andare a lavorare in Germania è semplice: “il denaro”. Quest’uomo grosso, dall’aspetto gioviale che non lascia immaginare i 30 anni passati a lavorare nella macellazione, non ne fa un segreto. Il denaro era il suo problema principale a Buzau, la sua città natale a 100 chilometri da Bucarest.
Quando nel 2008 il suo amico Nicolai gli ha parlato di questo lavoro di macellatore in Bassa Sassonia, a Essen-Oldenburg, pagato 1.600 euro al mese, “Ho detto subito di sì. Arrivo”. Così pochi giorni dopo Stefan, 46 anni all’epoca, ha lasciato sul posto un figlio già grande e ha portato con sé sua moglie, Luminata, sarta di professione. La donna abbandona l’ago e il filo per convertirsi al taglio degli animali. Dalle 16 alle due del mattino, pause comprese. L’occasione è troppo ghiotta.
All’inizio tutto va bene. L’unico problema è l’appartamento in una casa di mattoni di Quakenbrück, a 10 chilometri dal mattatoio, che Stefan e Luminata devono condividere con altre due coppie. Un solo bagno. Il tutto per 175 euro a testa al mese pagati al “padrone”. Lo stesso che dirige il mattatoio.
Ma dopo qualche mese l’impresa cambia il modo di pagare. Basta con il salario fisso, adesso Stefan e sua moglie saranno pagati a pezzo: 1,31 centesimi (0,0131 euro) per maiale macellato per lui e 0,98 centesimi per lei. Forte e abituato al lavoro, Stefan può lavorare 700 bestie all’ora, quindi può arrivare a guadagnare nove euro l’ora. Ma Luminata non regge il ritmo. Inoltre dopo qualche giorno i maiali non arrivano più. Danish Crown, un grande produttore di carne che si riforniva presso il mattatoio di Stefan, ha cambiato fornitore e ne ha scelto uno meno caro.
“Niente maiali, niente denaro”, sintetizza Stefan in un francese che ha imparato a scuola. Lui e sua moglie vivacchiano con 500 euro al mese. Poi più niente. Il mattatoio fallisce e la coppia è licenziata senza ricevere i 5mila euro che ancora le spettano.
In Bassa Sassonia il caso di questi romeni è solo uno dei molti esempi di sfruttamento della manodopera straniera, che non ha una buona conoscenza dei propri diritti e che spesso è tenuta volutamente nell’ignoranza. Da un anno a questa parte la stampa locale ha parlato spesso di storie del genere nella “cintura del grasso” della Germania, uno dei principali esportatori europei di carne.
Uno stipendio da fame che talvolta arriva a due o tre euro l’ora
Nel corso degli anni le nazionalità “invitate” sono cambiate, ma lo situazione rimane la stessa. Uno stipendio da fame che talvolta arriva a due o tre euro l’ora e delle condizioni di accoglienza indecenti. “Poche settimane fa sono stato contattato da uno spagnolo che lavora in un mattatoio di pollame e non aveva ricevuto il suo stipendio. Così ho scoperto che lui e altri 70 connazionali vivono in 180 metri quadrati in un ristorante abbandonato”, racconta Matthias Brümmer, responsabile regionale del sindacato alimentare Ngg.
Questi industriali si vantano di trattare correttamente gli animali, in compenso però trattano i loro dipendenti come bestie
“Non abbiamo ancora visto dei greci”, dice il sindacalista. “Ma l’industria cerca e trova sempre quello che vuole là dove la miseria è maggiore. Questi industriali si vantano di trattare correttamente gli animali, in compenso però trattano i loro dipendenti come bestie.”
In Germania nella filiera della carne non c’è alcun salario minimo. Inoltre sotto il governo di Gerhard Schröder (Spd) è stata introdotta una clausola che permette a un datore di lavoro tedesco di “prendere in affitto” della manodopera da un’impresa straniera, per esempio romena o bulgara. In questo contesto i dipendenti sono sottoposti alla legislazione sul lavoro del loro paese di origine, spesso meno favorevole. Così la Bassa Sassonia, che permette agli industriali di utilizzare manodopera a buon mercato, è diventata un polo di attrazione per le multinazionali della carne. E non a caso qui operano la Danish Crown e l’olandese Vion, oltre alle tedesche Tonnies e Westfleisch.
Il risultato è che in questa regione la disoccupazione è ai minimi (il 6,5 per cento in agosto secondo l’agenzia per l’occupazione), e nonostante l’automatizzazione della professione l’industria impiega ancora 142mila persone, che diventano più di 200mila se si tiene conto anche dei lavoratori “in affitto”, riferisce Brümmer. “Se la Germania smettesse di produrre carne in Europa ci sarebbe la carestia!”, scherza il sindacalista.
Ma per lui, come per molti altri tedeschi, questa situazione non rappresenta una cosa di cui andare fieri. “Mi vergogno. Quando vado all’estero e penso a questa situazione sono incapace di giustificarla”, dice Alexander Herzog-Stein, specialista del mercato dell’occupazione presso l’istituto Imk, vicino ai sindacati.
Dopo la carne verrà la lotta per i lavoratori del settore alberghiero, della ristorazione e per gli apprendisti parrucchieri, i cui stipendi non superano i due-tre euro l’ora.
Traduzione di Andrea De Ritis
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