“Inevitabile la mescolanza dei popoli per questo io dico sì allo ius soli”

by Sergio Segio | 18 Settembre 2013 7:47

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MILANO — Cardinale Angelo Scola, nella sua Lettera pastorale definisce «un balbettio» la voce di Milano. A due anni dal suo arrivo, che città è Milano?
«Oggi c’è chi afferma che saremmo di fronte al termine del processo di secolarizzazione. I tentativi che si sono succeduti, a partire dalla modernità, di trovare un significato comune per tutti non sono riusciti. Siamo alla ricerca di un nuovo senso. Potremmo dire di un nuovo umanesimo che deve ancora vedere la luce. La parola balbettio la uso positivamente, come una promessa ».
E questo umanesimo può partire da Milano?
«A Milano, e nell’area metropolitana lombarda, ci sono germogli promettenti di un nuovo umanesimo. Il tessuto sociale documenta, in molte forme, tentativi di risposta alla ricerca di senso e di speranza per la vita, luoghi di costruzione della vita buona e di buon governo. Anzi, quest’estate davanti allo
Shard (la Scheggia), il grattacielo-simbolo di Londra, mi veniva in mente il più alto dei grattacieli di Milano, che in forme moderne ripropone, con la sua freccia, una guglia del nostro Duomo. E pensavo: se l’emblema della Londra contemporanea registra la figura dell’umanità di oggi, che sembra un agglomerato di schegge di verità, quello di Milano con la sua guglia lanciata verso il cielo, verso Dio, può diventare simbolo della costruzione del nuovo umanesimo che ci attende».
Perché allora l’allarme di un “ateismo anonimo”?
«Io vedo un Duomo pieno di gente, così anche le parrocchie. Milano non è Parigi, Londra o Berlino. C’è ancora un cattolicesimo di popolo. Siamo allora al riparo a differenza del resto d’Europa? No, perché c’è una sorta di “ateismo anonimo” nel senso che molti cristiani hanno perso la percezione della presenza concreta di Dio nel quotidiano».
Lei ha coniato la definizione di “meticciato” e parla spesso della nostra società plurale. Oggi è più che mai attuale il tema del diritto di cittadinanza per i bambini figli di immigrati ma nati in Italia. Che ne pensa?
«Io istintivamente sono a favore dello ius soli, però anche questo va studiato e regolamentato con grande attenzione e realismo, perché in una situazione come quella attuale, non si può sancire meccanicamente il diritto per chiunque venga in Italia, anche per poco tempo, di fare un figlio, fargli ottenere la cittadinanza, e poi andarsene».
Ma proprio qui nella diocesi lombarda c’è chi chiede leggi più restrittive sull’immigrazione e chi ritira i figli da scuola per la presenza degli stranieri.
«Il mescolamento dei popoli è un processo. E i processi non ci chiedono il permesso di capitare: avvengono. Saggezza chiede che cerchiamo di orientarli al meglio, puntando all’integrazione. È di capitale importanza però distinguere i ruoli. La Chiesa è chiamata a fare una cosa, la società civile è chiamata a farne altre, la politica altre ancora. Quando il Papa va a Lampedusa, testimonia che la Chiesa deve farsi carico del bisogno nella sua immediatezza. Arriva da noi gente che sta male: la si accoglie, la si aiuta. Poi però la politica deve fare la sua parte. Sull’immigrazione è necessaria una politica capace di interpretare e di gestire le istanze che nascono dalla società civile, compresa la paura della gente».
Come sta vivendo i primi mesi dopo l’arrivo di papa Francesco? Dialoga con i non credenti, come nella lettera inviata a Eugenio Scalfari e a Repubblica. Vuole aprire i conventi ai rifugiati…
«Il Papa, con la sua personalità e il suo stile, ha testimoniato con forza e freschezza l’essenza del fatto cristiano. Senza dubbio papa Francesco rappresenta per tutta la Chiesa — e in particolare per noi europei, stanchi e affaticati perché abbiamo portato sulle spalle il peso della complessità moderna — una provocazione salutare, una scossa, uno shock benefico. Dobbiamo tutti seguirlo. La vivacità dello stile personale e la sapienza di papa Francesco ci invitano a semplificare, ad evitare il rischio di troppa organizzazione. Mi viene in mente Michelangelo e penso al metodo con cui creava i suoi capolavori: di fronte al blocco di marmo vedeva la forma della statua e per lui scolpire era anzitutto tirar via».
Lei invita la Chiesa a «non richiudersi nei recinti» e a dialogare con il mondo, cercando un «confronto leale» anche con chi la pensa diversamente.
«Se voglio capire le ragioni di uno che non crede, devo ascoltarlo e confrontarmi, ed anche lui deve ascoltare e confrontarsi con le mie ragioni. Questo non solo è inevitabile, ma è anche l’aspetto affascinante di una società plurale. Visioni diverse si confrontano e talora si scontrano per arrivare ad un riconoscimento reciproco. Occorre superare il limite umano che si radica nel pregiudizio: se non lo faccio non sono capace di autentica critica».
Oggi il lavoro è un problema drammatico a Milano come in Italia. Come si esce da questa crisi economica?
«Non si capisce questa crisi economico- finanziaria se non inserendola nel travaglio dell’epoca in cui stiamo vivendo. La finanza ha potuto prendere certe strade proprio a causa di quella “scheggiatura” culturale di cui ho parlato. Se ci fosse stato un umanesimo unitario di riferimento, pur nella pluralità, forse certi eccessi sarebbero stati impediti. A questo punto dobbiamo avere l’umiltà e il coraggio di cambiare. La prima cosa, la più urgente, è condividere il bisogno dei giovani che non trovano lavoro e dei quarantenni e cinquantenni che lo perdono. Qui a Milano la Chiesa sta dando un contributo con il Fondo Famiglia Lavoro ».
Torniamo a Milano. L’Expo può rappresentare un’occasione di rilancio?
«L’Expo è un catalizzatore, cioè un potenziale fattore di unità. Il suo tema, “Nutrire il pianeta”, è bello, ha a che fare con tutti e tre gli aspetti della vita dell’uomo: affetti, lavoro, riposo. Inoltre a noi cristiani questo tema sta particolarmente a cuore perché il centro della nostra vita quotidiana è l’Eucaristia, cioè mangiare il corpo di Cristo. Io credo che se lavoreremo bene, Milano farà sentire la sua voce in tutto il mondo mostrando il suo contributo a quel nuovo umanesimo di cui parlavamo».

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