by Sergio Segio | 15 Settembre 2013 7:10
Nella partita diplomatica Usa-Russia che si è aperta col negoziato sulla Siria, oltre al confronto tra due sistemi politici e due leader (Obama e Putin) molto diversi, c’è la competizione tra due capi delle diplomazie che vengono da mondi tra loro lontanissimi. Lo si è visto fin dalla prima volta che si sono presentati davanti alla stampa all’inizio del negoziato di Ginevra, tre giorni fa: John Kerry ha parlato a lungo, come si fa al Senato, ha cercato di convincere, qualche volta si è contraddetto. Sergey Lavrov ha ironicamente finto ironia. «Non mi sono preparato un discorso così articolato, della posizione russa ha già detto tutto Putin nell’articolo sul New York Times . E poi la diplomazia richiede silenzio. Buon lavoro e arrivederci».
Cattolico, cresciuto in una famiglia della media borghesia ma poi andato in Francia a vivere un’adolescenza da miliardario nella tenuta dei Forbes, Kerry è la grande promessa mancata della politica Usa: il leader democratico che nel 2004 non riuscì a conquistare la Casa Bianca e a far sloggiare George Bush. Un uomo simpatico, affabile, che da capo della commissione Esteri del Senato ha conosciuto il mondo. Siria compresa, con coda di imbarazzanti foto di lui a cena, in un clima intimo e amichevole, con Assad e le rispettive mogli.
Un politico abituato a cambiare posizione con disinvoltura e a fare abbondante uso della retorica: dal ragazzo reduce dal Vietnam che 42 anni fa testimoniò davanti al Senato da attivista per la pace trasformato al falco che pochi giorni fa ha arringato il Congresso sostenendo l’ineluttabilità della guerra prima di trasformarsi, con l’ennesima piroetta, in una nuova colomba della pace. Un ministro degli Esteri che anche nella nuova veste ha continuato a parlare molto, infilando gaffe in serie: l’ipotesi di un intervento di truppe Usa in Siria in casi estremi (armi chimiche finite nelle mani di Al Qaeda) formulata e subito dopo negata davanti alle rimostranze di deputati e senatori. Poi la promessa, per convincerli a votare la rappresaglia, che l’intervento militare Usa sarebbe stato «incredibilmente piccolo». «Parole incredibilmente dannose» replicò il repubblicano John McCain.
«Non ci limiteremo a punture di spillo» lo corresse Obama e Kerry cercò di recuperare parlando anche lui di aghi e di fili. Scivolando subito dopo — ma alcuni dicono che è stata, invece una mossa furba concordata col presidente — sulla frase che, colta al volo dai russi, ha aperto la strada del negoziato: «Attaccheremo a meno che Assad non consegni subito tutte le sue armi chimiche». Cioè qualcosa che lui stesso solo pochi giorni prima aveva liquidato come un evento impossibile, che non si sarebbe mai verificato. E che, invece, è lo scenario sul quale sta ora lavorando.
Certo, Kerry ha un lavoro molto più difficile di quello dell’abilissimo Lavrov che conosce tutti i meandri dell’Onu e della diplomazia e non ha un’opinione pubblica e un Parlamento da convincere. 63 anni, russo di origine armena, il ministro russo ha fatto una straordinaria carriera diplomatica, prima da ambasciatore all’Onu, poi come ministro degli Esteri di lungo corso: non come Andrey Gromyko che fu la faccia internazionale dell’Urss per 28 anni, ma Sergey guida il ministero di piazza Smolenskaia da ben 9 anni. Da lì ha gestito prima l’apertura agli Usa di Medvedev, poi la successiva chiusura voluta da Putin. Affascinando col suo charme e il suo sguardo anche Hillary Clinton: «sedotta e abbandonata» quando Sergey è passato a un rapporto di improvvisa freddezza. Un «signor no» arcigno quanto il mitico Gromyko.
Lavrov è un uomo di mondo che da ragazzo in aula era uno studente modello della Russia sovietica, ma fuori era l’affascinante poeta, il musicista che passava notti suonando la chitarra, l’indefesso organizzatore di feste studentesche. Un uomo affabile, grande amante del whisky scozzese. Uno che mentre ti ipnotizza con la sua cultura e la sua cordialità, studia i tuoi punti deboli. E, quando le circostanze lo richiedono, ti spiazza tornando in un attimo nei panni del gelido geometra degli apparati. La Clinton l’ha imparato a sue spese, Kerry rischia di fare altrettanto.
Massimo Gaggi
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