Renzi: «Letta pensi al Paese e non solo alla seggiola Cavaliere, è game over»
ROMA — Si incontreranno oggi. Per chiudere la partita congressuale. Ossia, per definire le regole e la data delle assise nazionali. Al riparo da sguardi indiscreti, nella sede del Partito democratico, Guglielmo Epifani e Matteo Renzi sigleranno la mediazione finale. Del resto, questo è un compito che tocca al sindaco di Firenze e al segretario del Pd. Il Congresso — è l’accordo di massima su cui si sta lavorando — si terrà il 24 novembre o, al massimo, nella prima settimana di dicembre. Ma Renzi, che non si fida, continua a dire pubblicamente che lo vuole il 7 novembre, come da statuto, «sennò non siamo democratici». In realtà è un modo per mantenere alta la tensione e non cedere sulle regole. Insomma, Renzi vuole vedere l’accordo sottoscritto nero su bianco. Ma, in verità, non c’è spazio per ulteriori dilazioni. Anche i bersaniani hanno capito che i loro margini di manovra si sono fatti esigui. La crisi si allontana portandosi appresso i tentativi dilatori dei sostenitori dell’ex leader. Poi ci sono le regole.
Restano aperti due nodi: l’eventuale sdoppiamento dei ruoli di segretario e candidato premier e l’elezione dei segretari regionali. Un nodo verrà sciolto nel senso voluto dal sindaco, l’altro no. È un ragionevole compromesso che consente a Renzi di ottenere ciò che vuole veramente: una data certa per il Congresso. Il primo cittadino del capoluogo toscano è in corsa e non intende fermarsi. Anzi, qualche giorno fa aveva preannunciato ai suoi: «Non annacquerò il mio programma e le nostre istanze e non farò salire sul carro chiunque». Detto, fatto. Va a Porta a Porta e sembra tornato all’antico. Non attacca frontalmente Enrico Letta, però di certo non gli liscia il pelo e gli lancia qualche frecciata più che velenosa. La prima: «Io capisco che Enrico si preoccupi della seggiola. Ci mancherebbe. Ma deve pensare anche al Paese. Questa cosa del governo che deve durare è un tic andreottiano. La mia domanda non è come ci arriva Letta al semestre europeo, ma come ci arrivano le imprese». Anche perché, sottolinea il sindaco, «la recessione finisce quando le aziende recuperano posti di lavoro, non quando un solerte funzionario dice che la recessione è finita». È la prima battuta che offende Letta, il quale chiama Delrio per dirglielo: «Sono rimasto male». Il ministro telefona a Renzi dopo la trasmissione e glielo riferisce. Replica del sindaco: «Ma la mia era solo una battuta».
Per altro non è nemmeno l’unica. La seconda frecciata giunge obliqua, ma arriva al bersaglio comunque: «Ho cambiato idea e ho deciso di candidarmi segretario quando ho visto che nei primi mesi di vita del governo il Pd è rimasto un po’ alla ruota del Pdl». Quindi la terza: «Non si è capito se l’Imu si paga o meno. Non è che se una tassa la chiami in inglese non si paga». Infine, conciliante, ma fino a un certo punto: «Su alcune cose Letta ha fatto i primi passi, però serve più coraggio. Una cosa è dire che serve la stabilità, altra cosa è l’immobilismo». Comunque il sindaco è convinto che Berlusconi sia «game over» e che quindi non aprirà nessuna crisi.
A Porta a Porta Renzi non eccede in tenerezze nemmeno con i suoi sostenitori dell’ultima ora: «Suggerirei a tutti di non salire sul carro: nella tradizione di Firenze ce n’è uno che viene fatto esplodere a Pasqua». Dopodiché il sindaco fa nomi e cognomi: «No, Fioroni non viene con me, fermo lì, non mi risulta». Anche con Franceschini non è tenerissimo: «Se noi partiamo con il parlare di D’Alema, Franceschini e Fassino, gli italiani vanno a letto». Insomma, Renzi non ha intenzione di farsi condizionare, né adesso né in futuro, quando sarà segretario. E delinea così il partito che verrà: «Dobbiamo rischiare, non rimanere nel museo delle cere».
Dunque, se «il Partito democratico vuole fare le cose per bene e per cambiare il Paese, io ci sono. Se invece vuole rimanere come è adesso, io glielo lascio volentieri». A chi? A Bersani, che ora tenta di commissariare Cuperlo, mettendogli attorno alcuni dei suoi. A Epifani, che «è un doroteo». A Letta, che «deve scegliere se essere più Andreotti o Andreatta». A Franceschini, «che stava nei giovani democristiani». Già, a Renzi non sembra interessare la lunga liturgia della mediazione, del compromesso e della trattativa: «Io non sono mai stato dc, sono cresciuto nell’Ulivo e nei comitati per Prodi». Più esplicito di così…
Maria Teresa Meli
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