E così Teheran cambia le regole del gioco globale

by Sergio Segio | 11 Settembre 2013 7:00

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Hassan Rohani, il nuovo presidente iraniano, cambierà forse le regole del gioco? Stando alle prime indicazioni, tale eventualità appare possibile. Ignorarlo sarebbe da sciocchi. Il linguaggio incandescente, le invettive contro l’Occidente, le accuse deliranti, la negazione dell’Olocausto e le provocazioni contro Israele che relegarono il suo predecessore, Mahmoud Ahmadinejad, nel ruolo di cattivo sono scomparse, o sopite. Non occorre essersi lasciati sedurre dal recente “cinguettio” con cui (presumibilmente) Rohani augurava buon Rosh Hashana agli ebrei (e che non ha prodotto alcun effetto sul primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu) per percepire un cambiamento significativo. E mentre Ahmadinejad era un agitatore di provincia, dimostratosi tutto fumo e niente arrosto Rohani, un ex negoziatore nucleare che ha studiato in Occidente, è un pragmatista politico.

Rohani è sensibile al desiderio degli iraniani di porre fine allo status di pària in cui la loro nazione è costretta, e ripristinare la normalità nelle sue interazioni con il mondo. Ha promesso che seguirà una politica di riconciliazione — impossibile in assenza di un raggiunto compromesso sul programma nucleare iraniano.
Certo, alla luce dei passati raggiri dell’Iran, della profondità della reciproca diffidenza che caratterizza i rapporti tra Washington e Teheran e dell’investimento decennale del leader supremo Ali Khamenei verso una politica antiamericana, esistono tutte le ragioni per essere scettici nei confronti di Rohani. Tuttavia, il suo esordio meriterebbe di essere messo alla prova, anziché essere pregiudicato da minacce o da ulteriori sanzioni.
Durante la crisi siriana Rohani ha condannato aspramente le armi chimiche, con le quali durante la guerra del 1980-88 l’Iran subì un attacco per mano di Saddam Hussein, tacitamente appoggiato dagli Stati Uniti. Il presidente iraniano è stato altrettanto risoluto nell’opporsi all’intervento militare Usa in Siria. Il suo approccio ha colpito per la sua obiettività. Al tempo stesso l’Iran, con le sue Guardie della Rivoluzione, è tra i principali sostenitori di Assad. Con l’Iran i segnali contrastanti non mancano mai. La lettura di Alice nel Paese delle meraviglie può essere vista come una buona preparazione per imparare a trattare con Teheran. Tuttavia, i residenti della capitale raccontano di un palpabile alleggerimento della tensione sotto Rohani. Il nuovo presidente dovrebbe essere giudicato con oggettività. Nel ricordare che all’indomani della Prima guerra mondiale il mondo civilizzato decise che non avrebbe più fatto ricorso ad armi chimiche, John Kerry ha voluto citare l’Iran al primo posto della lista degli oltre 180 Paesi firmatari della Convenzione sulle armi chimiche. È un buon segnale.
L’Iran sta vivendo una situazione delicata: si trova ormai in un vicolo cieco post-rivoluzione, nel quale la retorica anti-americana non risponde più ad alcun fine strategico. In un Medio Oriente in piena trasformazione, il richiamo ideologico della teocrazia islamica è pressoché pari a zero. Anche il sostegno dato ad Assad ha avuto un costo strategico, tanto per Teheran che per il suo surrogato Hezbollah. Le crescenti tensioni tra sunniti e sciiti non possono che nuocere all’intera regione. L’economia, piegata dalle sanzioni, è a pezzi. Il Paese ha praticamente esaurito la leva rappresentata dal
suo programma nucleare, da sempre usata per esercitare influenza senza però mai spingersi sino al gesto estremo: la costruzione di una bomba — che avrebbe scatenato una temuta reazione militare da parte degli Usa. L’Iran è paralizzato, e con lui il suo immenso potenziale.
Eppure, la Repubblica Islamica ha dimostrato ancora una volta di possedere una radicata capacità di ripresa. Rispetto agli standard di Siria, Iraq, Afghanistan ed Egitto, rappresenta un’oasi di stabilità, e come l’elezione di Rohani ha dimostrato, è capace di produrre delle correnti liberali all’interno del proprio modello autoritario. Les Gelb, presidente emerito del Comitato per i rapporti internazionali, ha sottolineato che le elezioni iraniane sono più libere ed aperte di quelle della maggior parte de Paesi musulmani. Si tratta, certo, di un motivo di vanto limitato — le elezioni del 2009, con i loro violenti postumi, si dimostrarono un fallimento — che tuttavia evidenzia l’importante fatto che l’Iran, a differenza della Siria di Assad, non è una società totalitaria.
La Repubblica Islamica è destinata a durare. Ha praticamente ottenuto il know-how nucleare a cui ambiva, senza dover prendere la rischiosa decisione di costruire una bomba. L’elezione di Rohani riflette il desiderio di una società che vive una situazione di impasse di modificare il proprio corso. Tutto questo lascia intendere che occorre negoziare adesso, prima che una nuova linea rossa porti gli Stati Uniti a uno scontro. Ciò richiede un nuovo approccio da parte dell’amministrazione Obama. Come efficacemente affermato da William Luers, Thomas Pickering e Jim Walsh nella New York Review of Books,
gli Stati Uniti dovrebbero prendere l’iniziativa e comunicare direttamente con la nuova leadership. La diplomazia coercitiva, fanno notare, tanto raccomandata da Dennis Ross, l’ex consulente di Obama per l’Iran, è un ossimoro, poiché il fronte coercitivo invariabilmente domina su quello diplomatico. L’obiettivo, affermano, dovrebbe rappresentato da un dialogo di ampio respiro nel corso del quale, con un processo graduale, l’Iran accetti un arricchimento limitato e destinato a un programma nucleare a scopi pacifici, sotto una stretta supervisione internazionale, mentre le sanzioni contro il Paese vengono progressivamente abolite.
Questo mese, sia Rohani che Obama saranno alle Nazioni Unite. Dovrebbero incontrarsi. Sotto l’asfittica inimicizia tra i due Paesi si nascondono numerosi, potenziali ambiti di cooperazione. Come ha fatto notare Karim Sadjadpour della Dotazione Carnegie per la pace internazionale, il crollo del regime di Assad produrrebbe per Washington e Teheran un interesse comune, volto a scongiurare l’affermarsi a Damasco degli islamisti radicali sunniti, che odiano l’Iran shiita anche più dell’America. Vi sembra inverosimile? Forse. Eppure il vorticoso turbinio del Medio Oriente ha provocato un leggero avvicinamento tra Teheran e Washington.
© The New York Times 2013 (Traduzione di Marzia Porta)

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