La provocazione del Nobel “Ormai la tecnologia spegne la voglia di novità”

by Sergio Segio | 10 Settembre 2013 7:46

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«Me lo sono sentito chiedere tante volte: la crisi attuale, che non riesce a passare, è una crisi dell’Occidente? Ci ho messo un po’, diciamo qualche decina di anni di studio, per capirlo. E mi sono convinto che la risposta è: sì, certo». Edmund Phelps è tutt’altro che un filosofo un po’ lontano dalla realtà, è un rigoroso economista premio Nobel abituato a basarsi sui fatti, che ha appena compiuto ottant’anni ma dirige a tempo pieno il Center on Capitalism and Society della Columbia University, dove insegna macroeconomia dal 1982. «Non voglio avallare il parere che sia in crisi il capitalismo: siamo in crisi perché abbiamo perso la capacità di fare innovazione. È svanito il senso comune del valore delle invenzioni, delle scoperte, del progresso rivoluzionario, che teneva uniti ricercatori, imprenditori, accademia, popolazione. Fino a qualche anno fa era come se tutti insieme si fosse protesi verso un fine migliore, verso un continuo scatto in avanti. C’era la necessità condivisa di non fermarsi, di rischiare, di gettare il cuore oltre l’ostacolo. Tutto perso. Il risultato è che l’arresto della crescita economica ormai da anni, nonché il drammatico accentuarsi delle diseguaglianze sociali». Allievo di James Tobin e Thomas Schelling a Yale negli anni ’50, nel 2006 gli è stato attribuito il Nobel “per il suo contributo alla conoscenza delle condizioni per la piena occupazione e la massimizzazione del salario”, come si legge nelle motivazioni dell’Accademia delle scienze di Stoccolma. E la principale di queste condizioni è l’innovazione, tema sul quale ha focalizzato i suoi più recenti studi. Il risultato è il libro Mass Flourishing: How grassroots innovation created jobs, challenge and change, appena uscito per la Princeton Press, che verrà fra poco in Europa a presentare.
Professore, non le sembra un po’ paradossale parlare di scarsa innovazione quando viviamo la rivoluzione di Internet e usiamo ogni minuto una panoplia di strumenti digitali?
«Me lo chiede per prima cosa chiunque ascolti questa teoria. Rispondo invitando a una riflessione: Internet, e allarghiamo il discorso a tutto l’hi-tech e perfino all’indimenticato Steve Jobs, è frutto di un pensiero circoscritto a una determinata zona della costa della California. Basta arretrare di qualche chilometro e addentrarsi nel cuore degli Stati Uniti fino, compresa la costa est di New York e Boston, per trovare molto meno spirito innovativo. Anzi, zero. Poi, pensateci: Internet non è più che un’applicazione commerciale di una tecnologia militare sviluppata negli anni ’60. Proprio dove io colloco la fine dell’innovazione».
E Jobs, che lei ricordava?
«Ah, no. Jobs era un genio assoluto. Un mago, un visionario, un avventuroso, uno spirito libero. Ne nasce uno ogni non so quanti milioni. Se ce ne fossero altri il problema non esisterebbe…purtroppo non ce ne sono più».
Allora, stabiliamo i confini temporali. Quando si è esaurita la spinta all’innovazione?
«Mi faccia dire prima quando tutto cominciò: nel 1815 in Gran Bretagna con la rivoluzione industriale. Presto il gusto della sfida per il progresso si spostò negli Stati Uniti, e dopo in alcuni Paesi dell’Europa occidentale: Francia, Germania, in qualche misura Italia.
Questo ha garantito per l’occidente un periodo di sviluppo e prosperità straordinario (il mass flourishing di cui parla nel titolo, ndr),
a un livello che i nostro antenati non osavano neanche immaginare. Ma ha cominciato a vacillare con il trauma della seconda guerra mondiale. Per fortuna in America questo spirito si è ripreso di slancio, però poi la spinta si è esaurita di nuovo negli anni ’70. L’Europa per molti versi non si è mai ripresa. Sì, la Germania è tornata ad essere un colosso in grado di sopportare il trauma della riunificazione, però la capacità d’innovazione dei tempi di Bismarck l’ha dimenticata».
Ci permetta di insistere, professore. Sulla base di cosa si sente di affermare una teoria così tranchant?
Quali sono i motivi?
«Con i ragazzi dell’università abbiamo elaborato un indice, la produttività direttamente collegata all’innovazione.
In Occidente, è cresciuto del 2% l’anno dal 1920 al 1973. Poi si è dimezzato, e ora viaggia sotto l’1%. Invece di metterci 36 anni per raddoppiare, ne impiega 72. È un cambiamento epocale, che alimenta le diseguaglianze perché riduce le possibilità per le persone individui di entrare a far
parte di quella cerchia sempre più ristretta di chi lavora in aziende e in ambienti “di punta”, costringendo sempre più gente ad accontentarsi di salari minimi. Ha tanti risvolti: per esempio si è ridotto drasticamente il numero di chi lavora in piccole aziende perché è diminuito lo spirito imprenditoriale. Quindi scendono le possibilità di crescita individuale. I motivi? Sono tre. Uno diciamo antropologico, cioè uno scarso entusiasmo, la sensazione di vivere moderatamente bene (anche se spesso non né vero) e quindi il blocco del guizzo d’intelligenza che serve per cambiare. Poi c’è la bramosia del denaro, che sopravanza qualsiasi altro desiderio e aspirazione. La corsa è ad accaparrare quanti più soldi possibile, al punto che non resta il tempo per leggere un po’ e pensare a quali potrebbero essere delle nuove invenzioni. C’è la tendenza a mantenere ciò che già esiste e a cercare eventualmente dei miglioramenti, salariali o di rendita, all’interno. Il terzo motivo lo chiamo short-termism».
Cioè, cultura del breve termine?
«Nel capitalismo attuale, la pressione degli azionisti costringe i manager a inseguire il bilancio annuale, se non trimestrale, sacrificando la componente dell’innovazione. Non a caso, e qui parliamo ancora di Jobs ma anche di Jeff Bezos, Bill Gates o dei dei fondatori di Google, le aziende innovative sono quelle condotte per lungo tempo dalla stessa persona. Ma quando un fondo d’investimento anonimo possiede un’azienda, di qualsiasi settore, quale altro interesse vuole che abbia se non portare a casa il dividendo immediato? »

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