by Sergio Segio | 9 Settembre 2013 6:43
GORIZIA. Basta leggere uno dei tanti volumi di Giuseppe O. Longo, primo cattedratico italiano di Teoria dell’informazione, o trascorrere qualche ora in sua compagnia, per rendersi conto che lo spazio per la futurologia si sta erodendo in modo irrimediabile. Per restare all’incrocio tra informatica e biotecnologie, non c’è fantasia capace di stare dietro alla realtà. Forse per questo lo stesso Longo, che oltre ad essere scienziato, è anche scrittore, drammaturgo e attore, quando si dedica alla narrativa scrive racconti struggenti come il Rimpianto degli uomini.
Quasi che il narratore chieda al ricercatore di fermarsi a riflettere sull’idea di limite. La cui costante trasgressione, per contro, è da sempre alla base dell’impresa scientifica. «Non so se si possano salvare insieme capra e cavoli. Può darsi benissimo che ci sia una prevalenza sistematica della trasgressione, visto che chi la propugna ha i mezzi finanziari per farlo. Perché sa, al di là delle pulsioni dei singoli ricercatori e magari del loro altruismo nei confronti dell’umanità, poi esistono i profitti. E le grandi aziende utilizzano i ricercatori come api mellifere per incrementare gli utili. Se non teniamo conto di questo aspetto non capiamo nulla della cosiddetta big science, che ha bisogno di enormi finanziamenti».
Da quanto dice parrebbe comunque che le strade della scienza e della tecnologia non corrano in parallelo.
«La scienza mira ad affrontare i problemi, offrendo delle spiegazioni razionali, mentre la tecnologia non ha l’ambizione di spiegare, ma quella di fare. In quanto tecnologo, non mi interessa sapere perché uno strumento funziona, ma solo che funzioni.
E questo, al fondo, è un atteggiamento antiscientifico».
Anche lei vede il rischio di una teocrazia tecnologica?
«Si dice spesso che la tecnologia disumanizza. Non sono d’accordo, per la semplice ragione che l’uomo è naturalmente tecnologico: ovvero concepisce degli strumenti che a loro volta retroagiscono su di lui cambiandolo. Da qui, anche, i problemi: perché di sicuro l’uomo col computer non è uguale all’uomo senza computer. La tecnologia non ci lascia indenni».
Lo si vede dal proliferare dei linguaggi digitali che si affiancano al linguaggio verbale e spesso lo soffocano.
«Il linguaggio verbale resta comunque il nostro strumento comunicativo principe.
Grazie al linguaggio, le menti individuali si sincronizzano e nasce l’intelligenza collettiva che oggi, grazie alle tecnologie, si è trasformata in intelligenza connettiva.
Mediata dalle macchine, prefigura una mente globale».
È l’avvento di quella che lei chiama la “creatura planetaria”.
«La vocazione del computer è quella di mettere in comunicazione gli esseri umani. I quali finiscono per dare vita a un’unica creatura, onnipervasiva, un po’ come accade alle api con l’alveare. Ovviamente in misura più contenuta rispetto agli insetti, ma è come se ciascuno delegasse parte della propria attività mentale a tale intelligenza collettiva e connettiva. A questa nuova creatura planetaria. È una delle tante forme in cui si presenta il post-umano».
Proviamo a individuare altre forme…
«Le modifiche di carattere genomico, che hanno un duplice scopo. Da un lato riparare i guasti dovuti a menomazioni. Dall’altro gli impieghi di tipo migliorativo. Da qui il sogno: vorrei avere un figlio alto, biondo e con occhi azzurri. Ma chi mi assicura che quel figlio sarà contento? E poi, questi figli tutti uguali diminuiranno il patrimonio di variabilità genetica, mentre una specie è tanto più robusta, quanto più è varia».
Per non parlare del problema etico.
«Dal mito di Prometeo si ripropone lo stesso problema. Da una parte l’uomo trasgredisce, dall’altra ha il timore che così facendo venga punito il suo oltraggio alla sacralità: degli dèi o della natura. Ma la sacralità della natura viene a cadere non appena parliamo di post-umano. Perché esso postula l’insignificanza dei limiti naturali. Gli uomini hanno sempre tentato di trascendersi, solo che oggi la tecnologia è talmente pervasiva che questo oltrepassarsi è diventato traumatico. L’uomo, come scriveva Anders, è ormai antiquato. Non ce la fa a stare dietro a se stesso. La confusione tra naturale e artificiale dilaga perché la tecnologia ci invade. L’artificio entra nel corpo».
È quello che lei chiama “il simbionte”.
«Il simbionte è una creatura che ha una base biologica, che viene poi inzeppata di protesi tecnologiche: organi di senso, mani artificiali, chip inseriti nel cervello per contrastare malattie neurovegetative o per potenziare l’intelligenza o la memoria. Insomma, uomo e macchina in simbiosi. Beninteso, la simbiosi esiste in natura. Ci sono piante e animali che si scambiano favori reciproci. Però dal commensalismo si può anche passare al cannibalismo. Ecco allora il timore che il simbionte venga cannibalizzato dalla sua parte tecnologica».
Se si altera il corpo, si altera anche l’elemento ultimo dell’individualità.
«Questo è il punto cruciale del post-umano, perché il nostro corpo è anche il nostro simbolo identitario. Non esiste separazione cartesiana tra razionalità ed emozione. Noi siamo tutt’uno. Se a un individuo togli le emozioni, quell’individuo non sarà più capace di prendere decisioni razionali. Ecco perché andrebbe rivisto anche il concetto di neutralità della scienza e della tecnica, come se non avessero a che fare con le emozioni».
Non si potrebbe dire che oggi la massima trasgressione consiste nel riscoprire il valore di un limite invalicabile? La preservazione dell’umanità?
«Pascal diceva: il massimo trionfo della ragione è riconoscere i propri limiti. Affermazione di un’attualità sconcertante, trascurata in campo tecnologico e in particolare al di là dell’oceano. Gli europei sono cauti sulla strada del postumano, mentre gli americani vanno a rotta di collo, non avendo la sensazione che il rispetto del limite costituisca una garanzia di autenticità».
Così l’Homo technologicus comincia a immaginarsi come Homo immortalis.
«È l’antico sogno di bere l’ambrosia degli dèi, che ora si assume per vie surrogate. Ovvero, se io – come alcuni sostengono – coincido con l’insieme delle forme d’onda dei miei pensieri, con il collegamento tra le mie sinapsi e riesco poi a trasferire tutto questo in un supporto artificiale, allora ecco che quando muore questa mia macchina di carne, la mia mente potrebbe continuare a vivere in quel supporto artificiale».
E l’Io che fine fa?
«Ecco il problema. Io dove sono? Può darsi che sia morto col mio corpo, ma può anche darsi che riesca a vivere in questa forma succedanea. Senza contare che le tecnologie dell’informazione più avanzate consentono di superare anche la simbiosi uomo macchina. E in prospettiva ci promettono cose mirabolanti, sa? Ivi compresa la possibilità di codificare lo stesso corpo, di tradurlo in pura informazione. E poi esistono algoritmi evolutivi che si moltiplicano, si replicano, interagiscono tra loro e si selezionano: vengono eliminati i peggiori e accettati i migliori, come accade nella selezione naturale. E si finisce così per creare qualcosa che si autoevolve».
È uno scenario che lascia tramortiti. Qual è la via d’uscita?
«Non se ne esce. Perché l’ipertrofia cognitiva che stiamo perseguendo ha oscurato i problemi morali. Ma come diceva Gregory Bateson, ogni variabile, anche la più salutare, oltre un certo livello diventa tossica. Noi abbiamo ampiamente raggiunto la tossicità. Tossico in modo esemplare è il denaro, unico criterio essenziale ed esiziale che ha sostituito ogni discorso etico».
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