Il sogno di Putin: un blocco «Neo-sovietico» anti occidente
E tuttavia non si può disconoscere che Putin, negli ultimi mesi, di buone notizie ne ha incassate più d’una. A cominciare da quelle provenienti dall’Occidente.
La talpa Snowden che denuncia i metodi dell’intelligence statunitense e poi porta i suoi segreti in Russia. Il Parlamento britannico che dopo oltre due secoli vota contro una azione militare sostenuta dal governo. Il nuovo no della Germania a Washington dopo quello sull’attacco alla Libia, benché attenuato dalla tardiva firma della dichiarazione europea circolata a San Pietroburgo. Lo stare a metà del guado dell’Italia. I sondaggi d’opinione ovunque chiari nell’indicare contrarietà all’azione voluta da Obama. Quanto basta e avanza per capire il compiacimento che la Russia ha ostentato al G-20. Ma Putin sbaglierebbe se credesse di essere stato lui, con la sua pur riconosciuta abilità, ad ottenere tutto questo: le dinamiche presenti in Occidente, alimentate tanto dalle preoccupazioni economiche quanto dai cattivi esiti delle guerre in Iraq, Afghanistan e Libia, appartengono appunto a un tormento occidentale, e non sono influenzate né dalle mosse del Cremlino né dalle sue forniture energetiche cui Mosca sarebbe la prima a non rinunciare.
Piuttosto, il braccio di ferro sulla Siria ha portato alla ribalta un sistema di alleanze e di tacite intese che Putin andava da tempo tessendo. Un gruppo eterogeneo che nulla ha a che fare con il blocco sovietico di antica memoria, e che proprio per questo risulta più efficace sulla scena internazionale. La Cina, beninteso, la sua potenza economica, le sue influenze mondiali. Pechino si muove con cautela, sa di essere desiderata ma anche temuta dalla Russia, evita di piazzarsi in prima fila ma al momento buono si fa trovare accanto a Mosca. Come accade al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Gli altri Paesi emergenti dei Brics, ideologicamente lontani ma politicamente spesso vicini: l’India, il Brasile, il Sud Africa, e se questa volta non possiamo citare la Turchia è soltanto perché la Siria ha per Ankara una valenza particolare. Nel mondo musulmano il fronte sciita: oltre alla Siria di Assad, l’Iran, quel tanto di Libano controllato da Hezbollah, e per massima ironia l’Iraq, dove è stato George Bush a portare al potere la maggioranza sciita. Ma la Russia ha qualche buon aggancio anche tra i sunniti, parla con l’Egitto e spera di ricavare vantaggi dalla rivalità tra Qatar e Arabia Saudita. E poi, vicino a casa, c’è il progetto putiniano dell’unione eurasiatica, che comprende Bielorussia e Kazakistan e punta all’Ucraina.
In quest’ultima iniziativa è possibile vedere — o temere — una nostalgia geopolitica dell’Urss, ma nel complesso la politica estera di Putin e del suo ministro Lavrov è una valida dimostrazione di adattamento al mondo nuovo, e tuttora in transizione, nato dalla caduta del muro di Berlino. Tanto più che, come accade nella crisi siriana, il Cremlino si dimostra abile nel giocare contro la guerra (fornendo armi alle forze di Assad), proclama la difesa della legalità internazionale (bloccando le risoluzioni dell’Onu), e si pone (con qualche ragione nel caso della Siria) come il baluardo contro terroristi e qaedisti.
A un certo declino Usa, si direbbe, fa da contraltare il ritorno della Russia. Ma al di là della Siria non è davvero così, non solo perché il declino Usa resta da verificare ma anche perché il nuovo attivismo mondiale della Russia ha i piedi d’argilla. La Cina avanza, malgrado il suo rallentamento. L’America è in lenta ripresa. Cosa accade, invece, in Russia? Accade che una parte ancora minoritaria della società urbana contesta i metodi repressivi di Putin (un test elettorale avrà luogo proprio oggi a Mosca) e soprattutto che la crisi economica minaccia un forte ritorno. La crescita del Pil è passata sotto il due per cento (pochissimo per la Russia), il ritardo tecnologico è enorme, le infrastrutture sono un disastro, cresce la fuga dei capitali e diminuiscono gli investimenti stranieri, permane la crisi demografica al ribasso. La sveglia, per Putin, potrebbe suonare sul suo comodino, assai più vicina della Siria o di Washington.
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