LA MORALITÀ DELLE BOMBE

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 Dopo aver affermato, a marzo, che il governo Usa non avrebbe “tollerato l’impiego di armi chimiche contro il popolo siriano”, e avendo parlato lo scorso anno di una “linea rossa” che non poteva essere oltrepassata, se Obama non reagirà con forza all’uccisione di oltre mille civili con il gas sarin, compiuta presumibilmente dal regime siriano, perderà la faccia. Naturalmente il rischio di perdere la faccia non è un buon motivo per scatenare una guerra.
Ma perché Obama si trincera dietro a una simile retorica? Perché ha tracciato proprio questa linea rossa? Il segretario di Stato John Kerry ha avuto ragione a definire l’impiego del gas “un’oscenità morale”. Ma altrettanto si potrebbe dire degli episodi di tortura dei bambini – che più di due anni fa segnarono l’inizio della guerra civile in Siria. Uccidere dei civili con armi chimiche è forse più moralmente osceno che tempestarli di colpi, farli morire di fame, bombardarli a morte?
Secondo un’opinione diffusa, alcune armi sarebbero più immorali di altre. Tutto è nato dall’orrore nei confronti dell’impiego della iprite durante la Prima guerra mondiale. Le armi di distruzione di massa, e in particolare le bombe nucleari, possono causare danni in maniera certamente più rapida rispetto ai mezzi convenzionali. Ma esiste davvero una grande distinzione morale tra uccidere circa centomila persone sganciando una bomba atomica su Hiroshima e ammazzarne un numero addirittura superiore provocando una pioggia di bombe incendiarie lanciate in una sola notte nel cielo di Tokyo? È stato più immorale uccidere gli ebrei nelle camere a gas o sparargli a bruciapelo per farli cadere dentro a delle fosse già piene di cadaveri?
Secondo un’ipotesi avanzata da Nicholas Kristoff sul New York Times, una rapida punizione potrebbe bastare a persuadere Bashar Al-Assad a trattenersi dall’usare nuovamente armi chimiche, e spingerlo a ricorrere a “mezzi più banali per massacrare il suo popolo”. Non mi sembra un discorso ragionevole. Il problema, indubbiamente, è rappresentato dal massacro, e non dai mezzi usati per attuarlo.
In ogni caso lo sdegno morale, per quanto giustificato, non rappresenta un motivo sufficiente per andare in guerra. Negli anni Cinquanta e Sessanta il presidente Mao si macchiò della morte di oltre quaranta milioni di cinesi. Di certo a nessuno saltò in mente di suggerire che dichiarare guerra alla Cina sarebbe stata una buona idea. Saddam Hussein ha ucciso con il gas centinaia di migliaia di iraniani e di curdi. Gli Stati Uniti addirittura lo sostennero.
Si tratta dunque di una questione di legalità? L’impiego di armi chimiche rappresenta una violazione delle convenzioni internazionali, che infatti la Siria non ha mai sottoscritto. Al tempo stesso esistono delle ottime ragioni per trattare Bashar al-Assad come un criminale di guerra – nel qual caso egli dovrebbe essere incriminato dal Tribunale penale internazionale. A cui, detto per inciso, gli Stati Uniti non hanno aderito. Quello di scatenare una guerra illegale, scavalcando le Nazioni Unite, per punire un atto illegale, non è un comportamento facilmente difendibile.
Tuttavia, si potrebbe dire, la “comunità internazionale”, o l’Occidente, o gli Stati Uniti in veste di principale potenza occidentale, devono certamente tracciare da qualche parte una linea oltre la quale non è consentito spingersi. Come possono dei governi responsabili volgere altrove lo sguardo mentre si uccidono moltitudini di innocenti? Tollerare il genocidio è intollerabile. A che punto esatto, però, occorre tracciare una linea? Quanti omicidi costituiscono un genocidio? Migliaia? Centinaia di migliaia? Milioni?
O forse non si tratta di numeri? Il genocidio dopotutto si misura con l’intenzione di voler uccidere o perseguitare un popolo in base alla razza o al credo religioso. Tecnicamente, uccidere dieci, o anche solo due individui per un simile motivo potrebbe rappresentare una forma di genocidio.
Vi è poi un altro modo di guardare agli omicidi di massa compiuti dai governi. Prima di intervenire con la forza in un altro Paese, occorre domandarsi se è probabile che l’intervento migliori la situazione, renda il mondo più sicuro, salvi vite umane. La violenza contro i cittadini, perpetrata tramite gas sarin o elicotteri d’assalto, è un’oscenità morale – difficile metterlo in dubbio. Come reagire è il punto: funzionerà?
La giustizia e la moralità non hanno molto a che vedere con questo. Analogamente al Tribunale penale internazionale, anche “l’intervento umanitario” ha maggiori possibilità di funzionare nel caso di un Paese debole (Serbia, Mali, Sierra Leone) che di una grande potenza. Nessuno, per intenderci, si metterà a lanciare missili contro la Cina, o la Russia, in nome dei diritti umani o delle norme internazionali che regolano i conflitti.
La Siria, come molti hanno fatto notare, non è la Libia o il Mali. Né è una grande potenza. Ma la guerra civile si è già estesa oltre i suoi confini, coinvolgendo grandi potenze come l’Iran, la Turchia e la Russia. Una conflagrazione regionale sarebbe peggio dell’oscenità morale di una guerra civile. E non è affatto certo che l’intervento delle forze Usa possa in qualche modo diminuire il rischio che il conflitto si estenda. È anzi più probabile che accada il contrario, con una conseguenza che taluni fautori dell’intervento Usa – tanto neo-con che “falchi liberali” – sembrano vedere di buon occhio: la guerra contro l’Iran.
Che risultato otterrebbe dunque un attacco Usa degli obiettivi siriani (che, secondo quanto ha assicurato il presidente Obama al mondo, non mira a cambiare il regime di Damasco)? Non fermerà la guerra civile. Mentre il lancio di un solo missile basterà a trasformare gli Usa in un partecipante diretto della violenza, che provoca ulteriore violenza. Non credo che per salvare la faccia di Obama ne valga la pena.
Questa è l’opinione di molte persone in Siria, anche tra i ribelli. È l’opinione della maggior parte delle persone in Europa. Ed è l’impressione anche della maggior parte delle persone negli Usa. Forse è ciò che pensa lo stesso presidente Obama, ed è per questo che sta temporeggiando e usando disperatamente il Congresso Usa allo scopo di, come si dice in America, “pararsi il culo”.
(Traduzione di Marzia Porta)


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