Obama e il Congresso, la battaglia è iniziata

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«Sarà difficile che questo Parlamento autorizzi l’uso della forza in Siria», dice il deputato repubblicano Tom Cole. Ed è un segnale importante perché Cole è un moderato che spesso fa da «pontiere» nel rapporto coi democratici. Ma soprattutto perché il parlamentare dell’Oklahoma esprime questo giudizio uscendo da un incontro riservato con altri 83 parlamentari nel corso del quale cinque membri del team per la sicurezza nazionale dell’Amministrazione Obama hanno illustrato le prove «top secret» che dovrebbero supportare la richiesta della Casa Bianca di un voto a sostegno dell’intervento armato.
Manca ancora una settimana al vero e proprio dibattito del Congresso che dovrà votare sull’intervento militare americano in Siria per punire l’uso di armi chimiche da parte del regime di Assad, ma a Capitol Hill già infuria la battaglia nonostante il Parlamento sia formalmente chiuso fino a lunedì prossimo. Nelle aule di Camera e Senato da domenica e anche ieri — festa nazionale negli Stati Uniti — è stato tutto un succedersi di riunioni tra deputati e senatori e di seminari, segreti e non, organizzati dal governo per spiegare le sue ragioni. E per sottolineare il rischio che un mancato intervento renda più baldanzoso non solo Assad ma anche l’Iran, impegnato in un ambizioso programma nucleare.
Come prevedibile, la decisione di Obama di tirare in ballo il Congresso ha creato un’atmosfera di grande incertezza. La Casa Bianca ha già lanciato un’offensiva di comunicazione senza precedenti: gli stessi funzionari della presidenza la definiscono un’inondazione di informazioni che piovono sui parlamentari che stanno rientrando alla spicciolata a Washington, pur senza essere stati formalmente convocati.
Per adesso l’esito della scommessa politica di Obama che vuole responsabilizzare Congresso e opinione pubblica resta incerto. Il presidente conta sull’appoggio di diversi repubblicani che restano fedeli all’idea di un’America «nazione indispensabile» e faro di civiltà che ha responsabilità universali per il mantenimento di un minimo di ordine nel mondo. Ieri ha incontrato John McCain, uno di questi repubblicani. Il cambio di rotta sul voto viene poi presentato alla casa Bianca anche come un’apertura allo speaker della Camera, il repubblicano John Boehner, che aveva chiesto spiegazioni.
Boehner non ha ancora deciso come schierarsi, ma in campo repubblicano alla Camera Obama può contare su altri uomini di peso come il capo della Commissione Intelligence Mike Rogers. Ma tanto parlamentari conservatori favorevoli all’attacco come Peter King, quanto un senatore radicalmente contrario come Rand Paul, convergono nel giudicare altamente incerto l’esito del voto.
Se la spunterà, il presidente si rafforzerà e potrà intervenire in Siria con le spalle coperte, almeno sul fronte interno. Ma, secondo i critici, Obama sta giocando una rischiosissima partita a dadi di politica interna mettendo in pericolo, in caso di sconfitta al Congresso, la credibilità internazionale del Paese. Un pezzetto di questa credibilità se lo giocherà già oggi quando il Segretario di Stato John Kerry e il ministro della Difesa, Chuck Hagel, riferiranno sul caso Siria alla Commissione Esteri del Senato, a poche ore dalla partenza di Obama per una missione in Svezia e al G20 di San Pietroburgo.
Il pericolo, per lui, non è solo quello di una bocciatura secca del Congresso, un esito forse improbabile: quello che già si intravede all’orizzonte è il rischio che anche un intervento militare in un Paese che ha commesso crimini contro l’umanità divenga oggetto di «tira e molla» politici che possono sfiancare il presidente e minarne i poteri.
I segnali ci sono già: la bozza di risoluzione da votare trasmessa sabato notte dalla Casa Bianca al Parlamento è stata presa dai repubblicani come una semplice base di negoziato, mentre al Senato è un democratico progressista — Pat Leahy del Vermont — a guidare la riscrittura del documento. La versione iniziale, breve e generica, lasciava ampi poteri al presidente. Ora, invece, si introducono paletti. In alcuni casi si vuole mettere per iscritto quello che Obama aveva già detto verbalmente: niente impegno di truppe di terra in Siria. Comunque un vincolo in più per la Casa Bianca e un precedente rischioso per i «commander-in-chief» del futuro. Ma c’è anche chi vuole irrigidire ancora di più l’autorizzazione, introducendo vincoli temporali per l’intervento armato e modificando la parte che ora lascia Obama libero di attaccare non solo Assad ma anche ribelli il cui uso di armi chimiche dovesse essere nel frattempo provato.
Massimo Gaggi


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