G20 di guerra, l’economia dopo il «bazooka» Fed

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Dopo il caso dell’asilo politico concesso alla spia Snowden contro il volere della Casa Bianca, la mina della guerra in Siria, ormai difficile da disinnescare, inevitabilmente finirà tra le portate del vertice.
Ma in realtà i motivi di conflitto non mancano anche nella sfera economica, finanziaria e monetaria, da sempre al centro dei negoziati del G20.
Cinque anni fa, subito dopo il crollo della Lehman Brothers, il Presidente americano uscente Bush junior convocava per la prima volta a Washington i leader dei 20 paesi più influenti al mondo per discutere come evitare il tracollo dell’economia mondiale. Si disse di essere giunti a un passo dal baratro e le parole altisonanti non mancarono, così come al G20 di Londra dell’aprile 2009 quando i leader adottarono un ambizioso piano di riforme dei mercati per imporre una nuova e più stringente regolamentazione della finanza globale fuori controllo. A cinque anni di distanza, i negoziatori del G20 proclamano che finalmente si prepara un vertice con la casa economica non in fiamme, ma il bilancio dell’azione del gruppo sulla finanza globale è più che deludente: poche misure concordate, delle quali molte inefficaci e non attuate ancora, oppure solamente a livello nazionale, lasciando così irrisolto il problema di come imbrigliare i mercati globali e le loro razzie speculative.
Quando la crisi finanziaria si è trasferita sui bilanci dei paesi avanzati ed il mantra dell’austerità ha preso il sopravvento soprattutto in Europa, le distanze nel G20 si sono acuite ancora di più.
La risposta americana, come sempre unilaterale, è stata quella di dare nel medio termine un ruolo interventista mai testato prima alla potente banca centrale, la Fed: il cosiddetto «alleggerimento quantitativo» che di fatto crea base monetaria per i mercati di capitale privati e il governo. Il G20 si è diviso: il Giappone ha finito per seguire l’approccio di Washington e la finanza europea ne ha indirettamente beneficiato, in silenzio. Di contro feroci le critiche in particolare dei paesi Brics, timorosi che l’immensa liquidità di dollari creata dalla Fed riscaldasse in maniera speculativa le proprie economie. E così in parte è stato.
Ma in fin dei conti ancora di più ha pesato la recessione nel ricco Nord ed il conseguente rallentamento dell’economia mondiale, e in particolare del commercio globalizzato. Cosicché anche il «dragone» cinese alla fine ha rallentato e a cascata tutti i paesi emergenti sempre più collegati a Pechino. Si pensi al Brasile dipendente fortemente dall’export, e scosso recentemente anche dalle proteste della classe media interna al paese. Anche al Sud Africa, sempre più connesso con l’Asia, non basta più l’egemonia sub-imperiale sul resto dell’Africa australe.
Ma è in Asia che i rischi sono sempre più forti. A fronte di un ingigantirsi delle piazze finanziarie di Singapore ed Hong Kong – anche dopo le tensioni nella nuova stella finanziaria di Dubai – i problemi interni all’economia indiana ed a quella cinese si moltiplicano. Per la prima iniziano a mancare sufficienti capitali da investire nel lungo termine nelle infinite opere infrastrutturali da realizzare, incluse le nuove mega zone franche sulla costa. Per la Cina il problema è ancora più serio e puramente finanziario, con un sistema bancario ombra sempre più grande e frutto di speculazione capace di far crollare la seconda super potenza.
Per questo le parti al G20 iniziano ad invertirsi. In maniera impensabile solo qualche anno fa. Sul tema dell’evasione ed elusione fiscale anche i paesi Brics vedono la necessità di fare qualcosa: in breve le proprie multinazionali hanno imparato subito da quelle del Nord come fare trucchi finanziari e contabili ai danni degli stati. Persino la Cina ha dato il via libera ad un ambizioso piano promosso dall’Ocse al riguardo, pur se il diavolo è nei dettagli dell’accordo. E di fronte alla possibilità che la Fed riduca il suo “alleggerimento quantitativo”, i rappresentanti dei paesi emergenti aggiungono la loro voce a quella dei mercati finanziari globali che temono una diminuzione dei loro extra-profitti.
Soprattutto per paesi come l’India, il rischio è quello di avere ancora più difficoltà a racimolare a prezzi vantaggiosi investitori globali. Da qui l’iniziativa sul «finanziamento per gli investimenti» e in particolare nelle mega-infrastrutture e nel modello di sviluppo alquanto discutibile loro collegato, su cui tutti i paesi del G20 si ritrovano sotto la spinta della presidenza russa.
Questa avrebbe voluto in realtà discutere solo di energia e di come gestire il transito in nuovi e vecchi oleodotti e gasdotti anche ridurre la speculazione sul prezzo del greggio. Poi il tema si è spostato su questioni su cui un consenso sembra più semplice da raggiungere, come le infrastrutture. Ma per mantenere viva la tensione, il Cremlino, con la sua prospettiva di investitore estero dei mega-profitti del petrolio – che ben poco sono usati per fini sociali interni – ha messo in agenda il tema della sostenibilità del debito pubblico dei singoli paesi, avanzati o emergenti che siano. Una mina che potrebbe deflagrare nelle ore del vertice – si pensi solo al caso del Giappone o dell’Europa del Sud – proprio come la guerra in Siria.
* Re:Common


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