by Sergio Segio | 2 Agosto 2013 6:55
TRA apoteosi e piazzale Loreto, gloria e sconfitta, salvezza e disastro, ma sempre sotto l’ala inconfondibile della commedia, e quindi con la partecipazione straordinaria dell’Esercito di Silvio e del cagnolino Dudù, di pochi altri capi politici si potrà dire, come di Silvio Berlusconi, che in questi venti anni se l’è voluta, cercata e trovata — e adesso si spera che un po’ si metta tranquillo.
Ma non è detto. Nei primi anni del decennio, ai tempi del suo secondo e anch’esso non irresistibile governo, il presidentissimo impose all’allora Guardasigilli, il non rimpianto pure lui ingegner Castelli, leghista esperto in congegni per l’abbattimento del rumore, di apporre nelle aule dei tribunali di tutto il paese al fianco della targa “La Legge è uguale per tutti”, un’altra targa che doveva ridimensionare, per così dire, l’impatto di quell’uguaglianza, e perciò detta Legge “era amministrata in nome del popolo”. Il quale popolo, sottinteso, era il medesimo che aveva fatto largamente vincere il Cavaliere, che a sua volta tutto desiderava fuorché farsi disturbare e magari rovinare dalla magistratura quella che il saggio amico di sempre, Fedele Confalonieri, in un attimo di civettuola distrazione aveva designato: “La passeggiata di Silvio nella Storia”.
E dunque di storia si tratta, se non antica nemmeno troppo recente, in ogni caso anche giudiziaria, ma soprattutto a tal punto fondata, contrastata,
rimandata, agognata, scongiurata, impossibilitata, disgraziata, insomma, talmente esageratamente prolungatasi da sollecitare in qualsiasi cittadino italiano la voglia di un qualsiasi redde rationem, il sollievo di una conclusione pur che sia — con la speranza che questa condanna non arrivi ormai troppo tardi.
Ché davvero non se ne può più. E tuttavia, per dire l’andazzo irreale, qualche mese fa Beppe Grillo, che tante cose in comune ha insospettabilmente con il Cavaliere, e tra queste anche un certo vittimismo, se n’era uscito con la storia che lui è un mega- perseguitato, che ha più cause di tutti, e non l’avesse mai detto, subito Berlusconi è insorto rivendicando il primato, con tanto di numeri, come al solito non troppo verificabili, e perciò: “Io ho 2.700 udienze sulle spalle, nessuno ne ha più di me”. D’altra parte, quando l’altro giorno un tribunale abruzzese ha condannato fra gli altri l’ex onorevole di Forza Italia Aracu per degli impicci di mazzette, subito dopo la sentenza al colpevole è parso naturale di gridare: “È un ingiustizia!”, il che si può perfino capire, ma anche: “Viva Berlusconi!”.
Sono stati anni irti di cause e controcause, densi di leggi salva-questo e salva-quest’altro, affollati di giusti e ingiusti processi, di lodi e non-lodi, prescrizioni e ricusazioni e indimenticabili classificazioni processuali tipo “l’utilizzatore finale” che hanno fatto venire addirittura il buonumore a chi vanamente si aggirava stordito tra sciaguratissime pandette e passaggi iniziatici in cui la Giustizia assomigliava ora a un groviglio, ora a un mistero.
Fremano adesso le Amazzoni, la Pitonessa e magari anche i Fratelli d’Italia. Tremino i falchi, le colombe, gli Ateniesi di Renzi e perfino i Giovani Turchi. Ma intanto, con una cadenza che in futuro si potrà pure studiare cavandone qualche algoritmo, Berlusconi ha richiamato la grande fortuna economica e di notorietà che ha baciato i suoi innumerevoli avvocati, non di rado rivali fra loro, e in un caso addirittura minacciati di bastonate da parte di altri effervescenti cortigiani tipo Lavitola.
A un certo punto, rinchiuso al buio per via di un’uveite nella lussuosa sala “Diamante” dell’ospedale San Raffaele, l’imputato permanente e privilegiatissimo ricorse addirittura al linguaggio cristico: “Vogliono crocifiggermi”. Dopo di che ebbe in sorte una visita fiscale da cui risultò che con qualche goccia di collirio poteva benissimo deporre a una benedetta udienza del processo Ruby. Ma siccome l’Italia è l’Italia, e il dominio degli spettacoli anche inconsapevolmente comici travolge qualsiasi dramma, fuori del Tribunale proprio quel giorno stavano girando una fiction con Stefano Accorsi su Mani Pulite — misurandosi quindi in meno di dieci anni il ritardo tra l’immaginazione scenica e la realtà.
Ecco, ora basta. Basta con il finale del Caimano, evocato sempre dinanzi al marmoreo palazzone di stile assiro babilonese di Milano ogni due o tre mesi. Basta con le claque contrapposte di tifosi fuori dalle aule, con cartelli, bottigliette d’acqua, palloncini e personaggi folcloristici tipo “Miss Passerottino”, una signora anziana che sosteneva che Berlusconi, “Silviuccio” lo chiamava, era appunto da ritenersi innocente come un uccellino e gli tirava baci davanti alle telecamere.
Basta dunque, ma non sarà facile. Come del resto non fu facile installare sui muri delle aule giudiziarie quella frase che invano tentava di sottrarre il Cavaliere all’uguaglianza della Legge. Non si trovavano le lettere giuste, i materiali e i colori adatti, a volte mancava lo spazio sulle pareti, gli artigiani consegnavano fuori tempo massimo, e così prima il governo Berlusconi ter e poi il quater erano caduti, e perciò a tutt’oggi questa storia del popolo e della giustizia amministrata nel suo nome pare rubricata nel “forse non tutti sanno che”, o addirittura nello “strano, ma vero”.
Sollecitato da una finta Margherita Hack il presidente emerito della Consulta Onida, nonché primo saggio del Quirinale, fu lapidato per aver detto,
in fondo, qualcosa che in questo giorno suona quasi ragionevole: “È anziano, cerca protezione, speriamo si decida a godersi la vecchiaia lasciando in pace gli italiani”. Lui stesso, Berlusconi, insisteva con la storia che gli sarebbe tanto piaciuto andare in giro per il mondo a costruire ospedali per i bambini del Terzo Mondo.
Ma quali ospedali! Processi, invece, e processi, processi, boccacceschi per giunta, con fantastici “assaggiatori” di giovinette o spassose linee difensive delle coimputate, la Minetti che invocava l’amore “vero”, l’Ape Regina l’amore “puro”. Il problema, semmai, è che la resa dei conti continuerà nell’immaginario, dentro le teste dei cittadinispettatori, e non potrebbe essere altrimenti se solo si considerano le ultime piazze berlusconiane, gli alti e i bassi della popolarità, le foto che restano impresse nella memoria.
Quel cartello, per dire, a piazza del Popolo: “Silvio, sei più grande di Giulio Cesare”, e sotto, abbandonato per terra, un altro su cui si leggeva: “Silvio, dopo di te il diluvio”. Come pure il trionfo piacione di Bari: “Visti da qui — sorrideva lui aggiustandosi i microfoni — siete bellissimi!”. Ma anche i lacrimogeni e le cariche della polizia a Brescia. Le cheerleaders che ballano al ritmo di “meno male che Silvio c’è” sotto il Colosseo. E sempre lui, ma in sagoma cartonata, su un camion con Giulianone Ferrara e una scritta che dice: “Siamo tutti puttane” (prima furono i “liberi servi” e prima ancora le
mutande).
Troppe visioni, troppi processi, troppo di Berlusconi è stato sparso nella società perché lo si possa bruciare, liquidare, o sradicare nel tempo breve di un’estate. Per cui nel giorno del giudizio (“Quattro angeloni con le trombe in bocca”) ci si rigira tra le mani i frammenti dell’ultima, eccezionale minutaglia di un consenso quasi ipnotico: l’eccentrico sardo che si è fatto il tatuaggio con la faccia del Cavaliere; lo studente di Caserta fatto denudare perché aveva lui sulla maglietta (e si giustifica: “Ma io ce l’ho anche con Scarface, Che Guevare e Ligabue”); l’ingegnere del Salento che si toglie la vita, ma raccomanda la famiglia a Berlusconi; la signora di Facebook che l’ha sognato e chiede di scrivergli lettere, “ma solo d’affetto e di riconoscenza”.
Altro che l’astuta ordalia del Palazzaccio.
Si guardi il petto e le spalle anche il governo. “Io lo so che tutto quello che coinvolge Berlusconi — diceva Enrico Letta ai giornalisti della stampa estera — per voi è fantastico perché vi consente di scrivere lunghi articoli”. Ma sempre più uguali, purtroppo — e nel frattempo sono volati vent’anni.
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