by Sergio Segio | 22 Agosto 2013 8:34
Già quella francese ci insegna qualcosa. Dopo il primo momento entusiasta che porta all’abbattimento del tiranno segue un periodo di incertezza alla fine del quale nuovi attori prendono le redini, sempre con la motivazione di perseguire con più forza gli ideali rivoluzionari traditi. La “rivoluzione nella rivoluzione” da Robespierre a Mao. Così in Egitto. Qualcuno afferma che l’esercito ha salvato la possibilità stessa di costruire un paese più democratico del precedente. Per questo è lecito un bagno di sangue. Si spera che le forze armate, una volta normalizzata la situazione, si ritireranno in buon ordine. Può essere, ma può avvenire anche il contrario. E la rivoluzione trasformarsi in restaurazione, come dimostra l’incredibile ritorno in scena di Mubarak[1], uscito dalla piramide dove era stato momentaneamente confinato.
Intanto i dittatori della regione esultano. A cominciare da Assad, seguito dagli autocrati dell’Arabia Saudita. I due regimi – su sponde diametralmente opposte – si ritrovano nel pugno duro che le autorità in sella utilizzano contro le opposizioni, senza distinguere tra gruppi nonviolenti che operano per i diritti umani, milizie armate, partiti politici organizzati e cellule terroristiche. Tutto è identico: sono sovversivi che vanno eliminati.
Preclusa ogni via politica rimane quella violenta che contrassegnerà i prossimi mesi coinvolgendo probabilmente altri paesi. In realtà tutti gli stati coinvolti nella “primavera araba” ora sono instabili: non si parla più di Libia, mentre la Tunisia rischia di finire nel caos[2]. Da un secolo però è l’Egitto a guidare le sorti di quella parte del mondo. Destini che poi si incrociano con quelli di Israele. I più complottisti sostengono che l’esercito egiziano, caduto nella trappola degli opposti estremismi, abbia imboccato la via del suo ridimensionamento: anche grazie agli aiuti americani l’esercito era potente e un giorno, magari sotto una guida politica più assertiva, avrebbe potuto impensierire Israele. Adesso non più. Questa spiegazione non sembra però credibile in quanto la generale mancanza di sicurezza ai confini dello stato ebraico determina un grave aumento della tensione, circostanza che non fa piacere a nessuno, a cominciare dagli Stati Uniti. È più probabile invece il tentativo di una restaurazione complessiva, appunto in nome della sicurezza. Se però cala il gelo sui movimenti democratici, il fuoco verrà attizzato altrove.
La storica contrapposizione tra sciiti e sunniti evidente nella decennale lotta tra Iran e monarchie della penisola arabica, ora si allarga: dopo aver contagiato il Libano, ecco la Siria, ora l’Egitto. Ma non è finita: persino il Marocco, geograficamente davvero distante, è stato invitato dall’Arabia Saudita a entrare nell’alleanza degli stati del Golfo sempre in chiave anti-iraniana. Il conflitto ormai è generalizzato, anche se a bassa tensione, con alleanze e schieramenti ben definiti. Soltanto il Qatar gioca per sé cercando di ritagliarsi un ruolo autonomo.
Si capisce allora quanto poco conti la questione democrazia. Certo è che la cosiddetta “via islamica” alla democrazia (per quanto ciò voglia effettivamente dire) sembra ostruita da insormontabili macigni. Si vedranno gli effetti probabilmente anche in Turchia, il modello più avanzato di questo tipo di prospettiva
Non si finirebbe mai di descrivere la situazione. Gli occidentali presentano la loro ricetta, molti però sembrano parlare a vanvera. In fondo si delinea una grande alternativa culturale prima che politica: vogliamo che anche il mondo arabo ripercorra la via liberaldemocratica europea fatta di divisione dei poteri, esclusione della religione dalla sfera pubblica, libertà civili, diritti umani e quindi di una classe borghese in grado di diventare classe dirigente? Oppure si può arrivare a questo mediante un altro modello? Anche qui la discussione sarebbe infinita.
Per noi verrebbe spontaneo sostenere i partiti che, con una forzatura discutibile, chiamiamo “laici” e in effetti occorrerebbe un grande ripensamento dei rapporti tra religione e politica nel mondo musulmano. Tuttavia dobbiamo renderci conto che in quei paesi la mentalità è profondamente diversa dalla nostra e la religione è percepita in maniera diversa, rimanendo un fattore di identità culturale piuttosto che essere una libera scelta individuale. Il cammino è lungo. Ovviamente solo un dialogo fecondo può generare relazioni positive.
Un dato però mi sembra sottovalutato, quello della dimensione economica. Contano le ideologie ma, come sottolineava il vecchio Marx, è l’economia a determinare l’evolversi della struttura politica. Pure i liberali però la pensano così. La democrazia è sorta quando la classe media è riuscita a imporsi. Dove la disuguaglianza tra il ceto più ricco e la massa dei poveri è troppo accentuata non ci potranno mai essere le condizioni per uno sviluppo democratico; e là dove sembra che ci sia democrazia essa diviene finzione se la gran parte dei cittadini non ha la capacità di concorrere alla gestione del potere. Lo sviluppo economico diventa quindi condizione necessaria per lo sviluppo politico. Ma la crescita ha bisogno di stabilità[3]. E qui, come un gatto che si morde la coda, ecco che la guerriglia di piazza, gli attacchi armati, gli arresti indiscriminati bloccano tutto. Ricominciare è sempre difficile con qualcuno che cerca di soffiare sul fuoco.
Piergiorgio Cattani[4]
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