TRA I DUE ESERCITI DIVISI DAL NILO
L’avanguardia, con la bandiera egiziana e quella nera dell’Islam, è stata fermata in mezzo al ponte da una grandine di pallottole. Erano tiri di intimidazione che si incastravano nell’asfalto a qualche metro davanti ai ragazzi in prima fila. Un proiettile di rimbalzo ha ferito alla gamba destra un mingherlino, di non più di diciotto anni, che gridava a squarciagola «no al golpe militare» e «Dio è grande». È stato un parapiglia. C’era chi ordinava di avanzare, e dava l’esempio continuando a marciare verso l’altra sponda del Nilo; chi sfoderava un fucile fino a quel momento nascosto e si appostava dietro al parapetto; e chi indietreggiava esitante per poi darsi alla fuga in preda al panico, lasciandosi alle spalle i primi morti.
A sparare dall’altra sponda non era la polizia. Un barbuto, con la camicia arancione del servizio d’ordine, mi ha indicato una terrazza sull’edificio di fronte al ponte. C’erano decine di uomini in borghese con mitra e fucili puntati sul corteo. Era uno dei “comitati popolari” di quartiere creati per sostenere l’azione dell’esercito. Insomma una milizia, nata negli ultimi giorni, e già efficace.
PERCHÉ quando uomini e donne del corteo si sono dispersi, tentando di rifugiarsi nel quartiere residenziale di Zamalek, un’isola sul Nilo alle loro spalle, sono stati presi a fucilate da un altro “comitato popolare”. Sono rimasti imprigionati tra due fuochi. Il corteo si è poi riformato, di nuovo disperso e poi ancora ricostituito e rimesso in marcia. In serata non pochi manifestanti, decimati, hanno raggiunto piazza Ramses, dove hanno preso d’assalto un
commissariato. I poliziotti hanno lanciato prima gas lacrimogeni e poi hanno sparato ad altezza d’uomo, con pallottole vere, come le avevano promesse i militari dichiarando lo stato d’emergenza. Un edificio in piazza Ramses bruciava a tarda sera, quando era già in vigore il coprifuoco. In una moschea vicina erano allineati i morti e venivano curati i feriti. La contabilità degli uccisi è come sempre approssimativa. Un centinaio nel paese, dopo il migliaio di mercoledì quattordici agosto.
La cronaca di quanto è accaduto sul ponte 15 maggio fa pensare all’inizio di una guerra civile. Da un lato gli islamisti, in preda alla collera per il massacro appena subito; dall’altro i “laici”, stanchi del fanatismo religioso. I primi, i Fratelli musulmani, sono numerosi e decisi a battersi, ma non
a ottenere un appoggio popolare. I cairoti sono in generale ostili a quei portatori di fanatismo e di disordine, che oltretutto si sono anche rivelati incapaci di governare. Le manifestazioni del 30 giugno e del 26 luglio hanno raccolto masse imponenti. Forse un milione. Ma erano indet-
te dall’esercito per combattere i “terroristi”. E i terroristi, i reietti, sono adesso ufficialmente i Fratelli mussulmani. Gli altri, i loro avversari, i laici, sono schierati con l’esercito, considerato una garanzia o un male minore. Morsi aveva la legittimità del voto, ma non l’ha saputa gestire; i miriescono
litari hanno la legittimità della forza. La democrazia invocata il 25 gennaio 2011, all’inizio della primavera araba, è in queste ore più che mai un miraggio. Piazza Tahrir, che fu la ribalta di quell’insurrezione, ieri era popolata di autoblindo. C’erano anche quelli del Fronte di Salvezza nazionale, l’alleanza dei partiti d’opposizione a Mohammed Morsi, il presidente deposto ed ora in galera. Il Fronte approva l’azione dell’esercito, ma ci sono formazioni politiche contrarie ai Fratelli musulmani e al tempo stesso contrarie alla repressione dei militari. Ad esempio “Nour”, partito islamico
estremista, concorrente dei Fratelli musulmani. Il quale è in verità un caso a parte. Un’eccezione. E tuttavia una forza assai più consistente degli altri movimenti che condannano il massacro: dei liberali del gruppo “6 aprile” e dei “socialisti rivoluzionari”, per ora coriandoli di una rivoluzione insabbiata e di una democrazia di là da venire.
Tanti altri cortei di islamisti, spinti dal desiderio di rivincita, ed anche animati da un’audacia spesso tesa al martirio, hanno percorso la capitale, inseguiti dai “comitati popolari” e ostacolati da un imponente spiegamento di forze di polizia. Bruciavano le automobili a Garden City, area affacciata sul Nilo dove si trovano molte ambasciate. E a Ghiza, al di là del fiume, verso le Piramidi, gli elicotteri hanno gettato gas lacrimogeni per
disperdere le file di manifestanti diretti a piazza Ramses. Il Cairo è stato per ore un campo di battaglia. Manifestazioni, sparatorie e morti ci sono stati anche ad Alessandria, a Ismailia e in tanti altri centri dell’Alto Egitto. I Fratelli musulmani si propongono di sfogare la loro collera anche nei prossimi sette giorni. Anzi, «fino a che non si dissolverà il potere militare».
In realtà sono profondamente divisi. Gehar el-Haddad, il loro portavoce, confessa che non è facile controllare le reazioni della confraternita, in preda alle passioni e alla disperazione per le perdite subite. Molti dirigenti sono in prigione, altri sono ricercati. Mohammed el-Beltagy, leader del partito Libertà e giustizia, espressione politica della confraternita, ha perduto la figlia. Aveva 17 anni ed è stata uccisa. Alcuni vorrebbero continuare a battersi con la violenza, optano in sostanza per il terrorismo; altri restano ancorati ai principi pacifisti. Le due anime dell’islamismo si scontrano nella grande organizzazione che dopo ottant’anni di clandestinità, di persecuzioni, di opposizione era infine arrivata al potere, e che adesso è dichiarata ufficialmente una setta terrorista, e quindi infrequentabile. Insomma fuori legge. Il ritorno alla clandestinità potrebbe rivelarsi una soluzione.
Di questo discutevano i militanti intenti ad allineare i cento e più corpi avvolti in lenzuola, come vuole la tradizione musulmana, e stesi sul pavimento di una moschea semibruciata. Dopo essere stato un bastione di resistenza, la moschea era diventato un obitorio. Con i cadaveri che per il caldo rendevano irrespirabile l’aria in tutto il quartiere. Bisognava seppellirli al più presto con un funerale dignitoso, ma la polizia non l’autorizzava. In quell’atmosfera le scelte più radicali erano le sole accettabili. E il ricordo del terrorismo di Gamaa al-Islamiya, il gruppo jihadista che tenne in agitazione l’Egitto vent’anni
fa, ritornava come un esempio irresistibile da seguire. Gli animi erano ancor più esasperati quando la polizia ha fatto irruzione nella moschea e se ne è andata con i cadaveri accatastati nei loro camion.
Il Fronte della salvezza nazionale, il fragile scudo democratico dietro il quale c’è l’ esercito, e di cui il governo provvisorio è l’espressione, non ha esitato ad allearsi, o comunque ad accettare la compagnia degli esponenti del vecchio regime. I “fulul”, come sono chiamati i partigiani di Mubarak, il raìs cacciato dalla rivoluzione di piazza Tahrir, si sono riciclati facilmente schierandosi con il fronte laico, contro i Fratelli musulmani e gli islamisti in generale. Lo stesso Mohamed el- Baradei, il liberale, premio Nobel per la pace, dimissionario da vice presidente in segno di protesta dopo il massacro del 14 agosto, ha dichiarato tempo fa di essere pronto ad accogliere nella sua formazione politica gli uomini del partito nazionale democratico di Mubarak. La laicità ha un prezzo alto, e per difenderla dagli islamisti, si deve sacrificare qualche pezzo di democrazia. In queste ore gli esponenti del Fronte di Salvezza nazionale, inclusi quelli al governo, denunciano l’incomprensione di Barak Obama che criticando l’azione dell’ esercito egiziano ha alimentato la rivolta dei terroristi, cioè dei Fratelli musulmani.
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