TRA FANTI E POETASTRI DI RETROVIA

by Sergio Segio | 10 Agosto 2013 6:42

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MONFALCONE. Prima lo chiamavano “la fronte”. Poi venne D’Annunzio, che all’assalto con la baionetta non c’era andato mai, e lo ribattezzò “il fronte”. E ora eccola lì quella cosa obbligata a esser maschio dai poetastri di retrovia e dai gerarchi del regime. Mi arriva addosso tutto in una volta, in un dedalo di montarozzi spelacchiati, paludi e risorgive tra il castello di Duino e Monfalcone. Sono sceso a piedi dall’Hermada, e il viaggio cambia subito scala, ma non nel senso che entra in qualcosa di incommensurabile. Qui è l’esatto contrario: gli spazi si restringono. Come avere Maratona, Cheronea e le Termopili concentrate in un sobborgo di Atene. Il paradigma dell’inconcepibile.
C’è un solo modo per muoversi lì dentro: a piedi. E c’è una sola mappa per non perdersi: quella uno al 25 mila firmata “Transalpina, Trieste”. Il Carso non è roba da Gps. Ricordo quando il ruvido Alessandro Ambrosi, “paròn” della libreria, sbucando da una trincea di volumi, me l’aperse davanti. La quantità di particolari era tale che brontolai: «Non mi bastano gli occhi». Al che lui, ghignando, mi mise in mano una lente, che aveva già previsto nella confezione. E ora rieccomi qua, con quel dannato ingranditore da tasca, a cercare l’inizio del sentiero. Da qui a Gorizia sarà così. I luoghi di Toti, Stuparich, Lussu e Ungaretti pigiati in un rettangolino. Quattrocentomila morti liofilizzati in un “war game”, in una leziosa miniatura. La guerra di posizione.
Nubi grasse si ammassano sulla pianura. Il “gate” che porta al fronte si nasconde nei pochi metri fra la ferrovia, l’autostrada e la vecchia provinciale costiera, sopra le fonti del Timavo, che lì emerge a due passi dal mare, dopo un lungo percorso sotterraneo. «Rispettate il campo della morte e della gloria » c’è scritto sul parallelepipedo di pietra dedicato all’invitta Terza Armata, ma il monumento perde pezzi, ha la lebbra. Ho il voltastomaco. Presto è il centenario di un evento fondativo del Paese, siamo all’ingresso di uno spazio forse più tremendo di Ypres, della Somme e della Marna, ma non c’è nessuno che pensa a ridare decoro a questo sterminato museo diffuso.
Quota 28, presa per pochi minuti dal maggiore Giovanni Randaccio, in un’impresa suicida istigata da Gabriele D’Annunzio.
È la primavera del ’17.
L’ufficiale e i suoi uomini sono spinti su una passerella oltre il Timavo, sotto tiro austriaco, con l’obiettivo di tentare un’incursione sul castello di Duino e innalzarvi un gigantesco Tricolore. Un’azione puramente propagandistica, utile solo al poeta, che — invelenito dal falle
— urla di sparare sui fanti intrappolati che si arrendono e poi ricama letteratura sull’agonia dell’ufficiale, il quale muore — egli scrive — fra le sue braccia, con la testa sulla bandiera. Sì, detesto D’Annunzio. Un narciso incendiario che ha soffiato sul fuoco dell’intervento come nessuno. «Mezzo milione di mangiaspaghetti morti, e che gusto ci ha provato quel figlio di puttana », così scrive di lui, spietatamente, Ernest Hemingway al ritorno dal fonte del Piave.
Fronte italo-austriaco, chilometro zero, estate 1915. Comincia un viaggio irreale. Giani Stuparich che scrive lettere rannicchiato dietro un muretto a secco, in mezzo alla puzza di escrementi — non ci sono latrine in prima linea e si defeca ovunque purché al riparo dai tiratori scelti — e sotto una pioggia continua, passando notti nel fango, assalito da incubi e ondate di sonno bestiale. Cadorna, sbarbato e ineffabile, che registra la contabilità dei morti nel suo quartier generale di Udine. Il primo assalto al San Michele, con la banda che intona la Marcia Reale e gli uomini che salgono impacciati da 35 chili di zaino sulle spalle, a farsi macellare dalle mitragliatrici. Scene che mandano in archivio in pochi istanti le immagini folgoranti di Calatafimi, e tutta l’epopea garibaldina.
Battaglioni di nubi in corsa sulla pianura, poi è il diluvio mentre salgo dalle paludi di Sablici verso i colli di Monfalcone. Fango e pietre, pietre e fango. Mi lascio inzuppare, i vestiti pesano. Borraccia vuota e sete, nonostante l’acqua che vien giù. “Fante”. Mastico questo bisillabo pesante, e mi par di sentire per la prima volta la sua miserabile essenza. Fante senza nome, fante austriaco e italiliano vestito di lana cotta anche d’estate, fante obbediente e incrostato di fango, con le scarpe addosso per settimane, fante pazzo di sete, con una borraccia ridicola, da mezzo litro al giorno. C’era bisogno d’acqua in prima linea, ma soprattutto per raffreddare le mitragliatrici. I ragazzi venivano dopo. Si narra che le reclute austriache sbattute al fronte nel ’15, dopo aver esaurito le riserve, si buttarono a bere nelle pozzanghere, passando poi il tifo agli italiani.
Stazione di Monfalcone, biglietto per Redipuglia, il tabaccaio che mi guarda come un miserabile. Bevo una birra a canna, poi allo specchio del wc mi accorgo di avere una zecca sul collo. L’ho beccata nella boscaglia. Per fortuna so come si fa: basta prenderla con due dita e girare in senso antiorario. Viene via subito, operazione riuscita. Ho letto che ci si spidocchiava fra soldati, e appena c’era tempo si bollivano le camicie per disinfettarle. Anche le mie necessità si stanno facendo elementari, come il mio pensiero. Desidero una doccia, il resto non conta. E quando salgo sul locale per Udine con l’alpenstock e lo zaino, sento di appartenere già a un altro tempo.
Mazze ferrate, cesoie, tagliole, triboli. Al museo di Redipuglia trovo nelle bacheche gli strumenti della crocefissione del fante. Leggo che i reticolati furono collaudati sulle bestie, dai cow boys del Texas, per poi essere usati sugli umani. Trecento tipi ce n’erano. Maschere a gas mi guardano come spaventapasseri, come cavalieri neri del Signore degli anelli.
Mi rannicchio a scrivere sotto un albero del Colle Sant’Elia. Non so per chi lo faccio. Forse per me stesso. Sento che questo mio diario di trincea altro non è che una lunga lettera non spedita.
(7 – continua)

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