by Sergio Segio | 6 Agosto 2013 9:03
Negli anni Settanta l’etnologia in lingua anglosassone ha vissuto una stagione rivoluzionaria nelle monografie di quei popoli, relegati nelle zone più impervie del pianeta, che vivevano ancora di caccia e raccolta. Sul fronte europeo, l’autore che ha interpretato in maniera più originale le ricerche etnografiche sui cacciatori-raccoglitori, incrociandole con una letteratura che risale fino a La Boétie e Montaigne, è il francese Pierre Clastres, erede diretto delle tensioni primitiviste del Lévi-Strauss dei Tristi tropici.
La casa editrice Elèuthera, specializzata in studi di antropologia radicale che attraversano lo spazio politico libertario, ha mandato in stampa un’antologia di quattro saggi di Clastres, tratti dal volume Recherches d’anthropologie politique, raccolti sotto il titolo di L’anarchia selvaggia (pp. 116, euro 12, traduzione di Guido Lagomarsino). Sono contributi che interessano anche per la loro collocazione originaria in una rivista teorica anarchica (la pregevole «Interrogations») o come paratesti che fungono da prefazione al Discorso della servitù volontaria di La Boétie e all’Economia dell’età della pietra di Mashall Sahlins, un saggio di economia del paleolitico che ha rovesciato i paradigmi interpretativi sui popoli che vivono di caccia e raccolta: lungi da essere economie di sussistenza, perseguitate dalla scarsità, quelle paleolitiche erano società affluenti, che rifiutavano però di produrre surplus per non dover alimentare disuguaglianze e divisioni.
L’opera di Sahlins ha segnato un marcato interesse nelle etnografie dei boscimani e degli aborigeni australiani. Attento a questa messe di studi, che lui stesso ha integrato con il lavoro di ricerca tra i Guaranì e i Guayaki del Paraguay, Clastres non si limita ad analizzare i dati economici in termini di sussistenza (peraltro fondamentali per rovesciare il presunto primato d’efficienza delle società capitaliste) ma spinge la sua analisi nel campo del politico e nel ruolo funzionale e simbolico della guerra. Le società dei «selvaggi» erano infatti descritte dai primi viaggiatori del XVI secolo come «senza stato, senza fede, senza legge, senza re». In realtà, sostiene Clastres, quelle società avevano una politica, ma questa non era separata dal corpo sociale: «strana persistenza di un potere pressoché impotente, di capi senza autorità». Dove non c’è coercizione né obbedienza, non c’è potere: c’è un’autorità spiata con diffidenza.
Non è raro infatti tra gli Yanomami dell’Amazzonia che un capo ansioso di accumulare potere si ritrovi escluso dal gruppo, o peggio ancora, trafitto da una lancia per le sue ambizioni belliche (ambizioni che, nella guerra a bassa intensità, alimentano una forza centrifuga che annullerebbe le tensioni unitarie di un’incipiente organizzazione statale). Detto questo, rimane tuttavia da capire come storicamente siano emersi l’autorità e lo stato, come le società egalitarie dei guerrieri siano diventate servili, divise e diseguali, oltre le seduzioni mitiche del buon selvaggio di Rousseau e del Leviatano di Hobbes.
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