by Sergio Segio | 4 Agosto 2013 7:54
NON sarà semplice, anche ammesso che l’esecutivo sopravviva al terremoto di queste ore. Molti nelle istituzioni si sono convinti che S&P o Moody’s, declassando in serie i paesi in recessione e con debiti crescenti, cerchino di ricostruire una credibilità incrinatasi quando le agenzie chiusero gli occhi sulla bolla subprime o sul crac di Lehman Brothers. Esiste però anche un altro risvolto: il fattore tempo sta diventando importante, perché nuovi tagli al giudizio sul debito italiano possono diventare l’innesco di una richiesta d’aiuto del governo a Bruxelles, a Francoforte o al Fmi.
Non che tutto questo stia increspando troppo la superficie. Una delle settimane più convulse nella storia recente del paese si è chiusa con dati di mercato che fanno apparire l’Italia quasi normale. Lo spread, lo scarto fra i Btp a dieci anni e i Bund tedeschi, è sui minimi da due mesi. E il rendimento di un titolo del Tesoro a cinque anni è sceso al 3,1%, poco sopra al livello del bond governativo Usa a dieci anni che venerdì viaggiava al 2,6%.
La lancetta dei mercati segna febbre bassa, eppure ciò non impedisce che la tensione sulla tenuta dell’Italia continui a correre in modo meno visibile: più nelle sale riunioni del governo o delle istituzioni internazionali, che in quelle operative delle banche d’affari. In particolare in questi giorni il Tesoro studia un’iniziativa per provare a disinnescare l’impatto che un nuovo declassamento del rating provocherebbe. I primi sondaggi con la Bce sono già iniziati in modo del tutto informale. In parallelo, il governo studia la proposta che si pensa di portare al prossimo vertice del G20, a inizio settembre a San Pietroburgo, e al Financial Stability Board: l’idea di base è rimpiazzare le grandi agenzie di rating private, come Moody’s e S&P, con un sistema di valutazioni del rischio d’insolvenza sui titoli di Stato che sia gestito da organismi pubblici come l’Ocse o la Banca dei regolamenti internazionali di Basilea.
Le discussioni per ora sono puramente tecniche, ma tutti hanno chiara la posta in gioco politica. Se declassata di nuovo sul rating, l’Italia può trovarsi costretta ad accettare un prestito e un piano di aggiustamento monitorato da Bruxelles, dalla Bce e dal Fmi: la cosiddetta troika. Non è una prospettiva imminente, ma già oggi le banche italiane sono a un soffio dal veder peggiorare le condizioni a cui si finanziano presso la Bce. Le operazioni con Francoforte sono il polmone finanziario del paese, ma l’Eurotower di recente è diventata più prudente nell’accettare in garanzia, a fronte dei propri prestiti, dei titoli di Stato con un rating troppo basso. Il rating infatti è un giudizio sulla capacità di un debitore di rimborsare i bond, cioè di onorare
i suoi debiti.
Il valore dei Btp come garanzia a fronte di un prestito di Francoforte sarebbe già tagliato fino all’8,5%, riducendo dunque i fondi disponibili per le banche, non fosse che per una piccola e poco nota agenzia di rating canadese che tiene l’Italia in gioco: si chiama Dbrs e qualora si allineasse a Moody’s e S&P, che hanno su Roma un giudizio peggiore, le banche subirebbero la prima sforbiciata. Non tutti gli istituti l’assorbirebbero facilmente.
Questo però è solo il rischio minore. Quello più serio è che un nuovo, doppio declassamento da parte di Moody’s e S&P tagli fuori l’Italia dai fondi della Bce. La banca centrale infatti accetta in garanzia titoli con rating «spazzatura» solo se il governo che li emette prende misure per garantire di essere solvibile: con l’Irlanda, la condizione dell’Eurotower fu che il governo accettasse un programma della troika. E oggi sia Moody’s che S&P hanno rating sull’Italia a due soli gradini dal livello «spazzatura» («noninvestment grade »), entrambi con «prospettive negative» e dunque la minaccia di un nuovo taglio.
Uno scenario del genere fa da sfondo ai colloqui di queste settimane con l’Eurotower e alle proposte che l’Italia vuole portare al G20. Quando a luglio S&P declassò l’Italia a «BBB», Fabrizio Saccomanni contestò la logica dell’agenzia americana. Secondo il ministro dell’Economia i rating «unsolicited», non richiesti, servono all’agenzia soprattutto per aumentare la propria visibilità e dunque l’influenza e il giro d’affari.
Chiunque abbia ragione, l’esperienza parla comunque chiaro: chi si trova dov’è oggi l’Italia, statisticamente ha una probabilità significativa di essere declassato a livello «spazzatura » in pochi anni. E ne ha una del 7,5% di fare default nel giro di un decennio. Che il governo concordi o no con le agenzie di rating, non può dunque più ignorarle.
Di qui l’idea italiana di un’iniziativa europea per disinnescare Moody’s e S&P e affidarsi ai rating di organismi internazionali. La speranza dell’Italia è che l’Eurotower sollevi il tema alla Bri, il club delle grandi banche centrali del pianeta. Non è chiaro che Mario Draghi, indipendente nelle sue vesti di presidente della Bce, voglia entrare in questa partita: non ora, non sul caso del suo paese d’origine in pieno stallo politico e senza riforme. Più plausibile forse che al G20 l’Italia trovi il sostegno dall’amministrazione Usa, che ha già fatto causa a S&P, chiedendole cinque miliardi di dollari per le promozioni facili emesse dietro compenso in piena bolla subprime.
Magari a molti la mossa italiana sembrerà un tentativo di cambiare l’arbitro quando si sta perdendo la partita. Ma un paese che non privatizza, non riduce la spesa e non si autoriforma per crescere, a quanto pare, non ha molta altra scelta.
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