Tocqueville, il semidemocratico
Da qualche mese le Edizioni della Normale, dirette da Michele Ciliberto, hanno dato vita ad una agile collana di testi brevi e significativi intitolata «Variazioni». Ne segnalo alcuni: dal trattato savonaroliano Sul governo di Firenze, alla recente pièce di Mario Moretti sul processo di Giordano Bruno, ai penetranti profili di Tocqueville scritti poco dopo la precoce scomparsa del nobile normanno da Sainte-Beuve. Mi fermerò in particolare su quest’ultimo, che è il nr. 1 della collana. Si tratta di recensioni all’opera di Tocqueville pubblicate dal critico tra il 1860 e il 1865.
Non ha torto il critico quando nota che nella seconda parte della Democrazia in America (nei libri III e IV, editi cinque anni dopo i primi, nel 1840) l’America è ormai «un pretesto» e la critica riguarda la democrazia come tale. L’America — scrive Sainte-Beuve — diventa «prestanome, mentre è delle società moderne in generale che egli si occupa». «Uomo dell’89 — prosegue Sainte-Beuve — egli è però così gelosamente attaccato alla libertà che sta in guardia e nutre sospetti contro l’eguaglianza. Di quest’ultima egli è un consigliere così ombroso che in certi momenti lo si direbbe un suo avversario».
Se avesse potuto conoscere l’appunto autobiografico di Tocqueville pubblicato per la prima volta nel 1925, intitolato Il mio istinto, le mie opinioni culminante nell’affermazione «Amo con passione la libertà, la legalità, il rispetto dei diritti, ma non la democrazia (…) Disprezzo e temo la folla» (Tocqueville, Scritti, note e discorsi politici, a cura di Umberto Coldagelli, Bollati Boringhieri 1994) non solo si sarebbe rinsaldato nel convincimento dell’importanza rivelatrice degli inediti ma vi avrebbe trovato qualcosa di ben più netto rispetto alla stessa sua diagnosi.
Che merita di essere qui riferita anche per la straordinaria ironia di cui è impregnata: «Quanto a me — conclude infatti Sainte-Beuve su questo punto — l’ho subito paragonato, nella sua ricerca della democrazia futura, verso cui egli tende e s’incammina ma con un volto tanto pensieroso da essere triste, al pio Enea che andava a fondare Roma piangendo Didone: Mens immota manet, lacrimae volvuntur inanes».
Ma Sainte-Beuve vede un forte divario tra la Democrazia in America (1835-40) e L’Antico Regime e la Rivoluzione (1856), anche se riconosce che l’incompiutezza di quest’ultima può render meno fondato il giudizio. Quel che gli appare certo è che, nell’opera sua ultima e incompiuta (che in realtà è il suo capolavoro), Tocqueville «sembrò ritornare al di qua dell’89, lui che fino ad allora ne aveva fatto una religione».
Nel saggio incompiuto sulla Rivoluzione, non si tratta più dell’equilibrio instabile, o per meglio dire dell’antitesi libertà-eguaglianza (o democrazia), ma della «sua (di Tocqueville) paura della centralizzazione» che lo porta a «misconoscere i grandi provvedimenti in favore dell’equità che dobbiamo a Richelieu e a Luigi XIV».
Il problema però sarebbe da porsi in termini alquanto diversi. In realtà, ancora nelle ultime pagine del libro incompiuto, Tocqueville recupera il «culto» per l’89 tanto da creare la poi celebre polarità tra l’89 (regno della libertà) e il 93 (tragico affermarsi dell’uguaglianza). Scrive infatti: «L’89, periodo di inesperienza, sì, ma di generosità, di grandezza; periodo immortale nel ricordo cui si volgeranno con ammirazione e con rispetto gli sguardi degli uomini quando da tempo saranno scomparsi coloro che l’hanno vissuto, e noi stessi». Sono le pagine finali del libro III, cui segue la allarmata descrizione dell’affermarsi progressivo del bisogno di uguaglianza. Ma l’89 fu già, con la rivoluzione contadina che travolse con inusitata violenza i privilegi feudali e portò alle storiche deliberazioni del 4 agosto da parte della «Costituente», un primo ’93. Tutto lo sviluppo successivo della Rivoluzione sta già nell’89. Questo vide Georges Lefebvre nel mirabile saggio L’Ottantanove.
Nel valutare l’opera di Tocqueville politico, alle prese con la grande svolta delle due rivoluzioni quarantottesche (che in certo senso riproducevano la polarità ’89/93), Omodeo istituisce in apertura un paragone con l’azione politica di Cavour: «Tocqueville assorto nei problemi della conoscenza e della penetrazione della vita politica e sociale, Cavour irrompente in piena letizia verso l’azione e la direzione politica degli uomini». E sovviene, a significare la distanza tra i due, la splendida lettera di Cavour ad Anastasia de Circourt (fine dicembre 1860): «Non mi sono mai sentito così debole come quando le Camere sono chiuse (…) Se si giungesse a convincere gli italiani che hanno bisogno di un dittatore, sceglierebbero Garibaldi e non me. E avrebbero ragione».
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Il libro: Charles-Augustin Sainte-Beuve, «Ritratto di Tocqueville», a cura di Giulia Oskian, Edizioni della Normale, pp. 144, € 10
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