Telefoni, cemento, auto Storia di Carlos Slim il padrone del Messico
NEW YORK — I messicani che lo ammirano ma non lo amano dicono di vivere in «Slimlandia»: non solo ogni giorno usano i suoi telefoni — sono sue le società Telefonos de México, l’ex monopolio pubblico, e América Móvil —ma vivono in case fatte col suo cemento, vanno a curarsi nei suoi ospedali, guidano le sue auto, fumano il suo tabacco, mangiano nei suoi ristoranti. Un supercapitalista — l’uomo più ricco del mondo, davanti a Bill Gates, con un patrimonio di 73 miliardi di dollari — accusato da molti di aver costruito il suo impero sullo scambio di favori con la politica e di aver acquisito posizioni di monopolio (od oligopolio) che gli consentono di imporre tariffe alte.
Ma Carlos Slim Helù, sicuramente cresciuto all’ombra del capitalismo di Stato, ha sempre avuto nella sua vita anche un genuino fiuto per gli affari. Sviluppato fin dalla più tenera età: a 12 anni, quando comprò il suo primo buono del Tesoro messicano, teneva un registro nel quale annotava ogni centesimo speso dei 5 pesos della paga settimanale avuta dal padre. A 15 anni cominciò a investire nel Banco Nacional de México. Ovviamente i momenti-chiave della vita da uomo d’affari di questo «tycoon» 73enne arrivarono molto dopo: nel 1982 quando la crisi economica e i prezzi del petrolio schizzati alle stelle spinsero i ricchi messicani a svendere in massa le loro aziende. L’ondata di panico si esaurì un paio d’anni dopo, ma nel frattempo Slim aveva comprato decine di imprese a prezzi di saldo.
La vera svolta nel 1990 quando il rampante Slim, messosi nella scia del presidente Carlos Salinas de Gortari, per molti anni l’uomo politico più potente del Messico, comprò Telmex, il monopolio telefonico pubblico con un’operazione spregiudicata: i 442 milioni di dollari del primo 5 per cento acquistato li pagò coi soldi di un prestito a tasso agevolato avuto dallo stesso governo. Poi emise azioni e obbligazioni per un importo ancora superiore e con quei soldi arrivò a controllare più di un quarto del capitale della holding.
Campione del capitalismo assistito, certo, ma quando il mercato si aprì, Slim riuscì a battere la concorrenza della AT&T e della MCI nel traffico telefonico internazionale. Un fiuto per gli affari che è di famiglia. Una dinastia di cristiani maroniti che affonda le sue radici nel mondo arabo, cosa che non piace affatto ai messicani. I quali si sentono discriminati negli Stati Uniti, ma poi in casa non è che siano particolarmente rispettosi delle minoranze.
Il nonno di Slim venne via dal Libano nel 1902 per evitare di essere reclutato nell’esercito ottomano. In Messico fece fortuna fondando «Star of the Orient», una catena di negozi di merci importate dall’Oriente.
A differenza di altri miliardari messicani meno ricchi di lui, Carlos Slim ha sempre condotto una vita relativamente modesta. Famose le sue vacanze su un caravan affittato coi tre figli e la moglie Soumaya Domit, scomparsa 14 anni fa. L’imprenditore vive in una casa non certo sontuosa, ma è circondato dalla sua collezione di quadri di Renoir e Van Gogh e statue di Rodin: l’arte è l’unica distrazione nota nella sua vita di grande mercante.
Anni fa sembrò sul punto di diventare editore: prese l’8% del New York Times e fece un grosso prestito alla società editrice. Ma quel prestito è stato rimborsato e i Sulzberger sono rimasti in sella, alla guida del gruppo.
Slim ha cercato spesso di internazionalizzare il suo gruppo ma, pur controllando América Móvil, la più grossa società sudamericana di telecomunicazioni, per molti anni non è riuscito a diventare un «player» importante negli Usa e un Europa. Anni fa, nel 2007, un suo tentativo di entrare in Telecom Italia finì nel nulla anche per l’ostilità del governo, allora guidato da Romano Prodi.
Telecom Italia, sei anni dopo, è ancora a metà del guado. E l’acquisizione dell’olandese Royal KPN da parte di Slim (entrato l’anno scorso anche in Telekom Austria) apre scenari nuovi.
Massimo Gaggi
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