Sesso, bugie e schiaffi Finale a luci rosse nel processo del secolo
PECHINO — Dopo cinque giorni di dibattimento, rivelazioni e sorprese, il processo a Bo Xilai, 64 anni, il «principe rosso» caduto in disgrazia, si chiude con un ultimo «colpo di teatro». Bo ieri è tornato ad accusare il suo ex braccio destro ed ex capo della polizia di Chongqing, Wang Lijun, di essersi segretamente innamorato di sua moglie Gu Kailai. Nella sua «contro arringa» finale Bo usa il termine «anlian», che in Cina indica gli «amori inconfessabili», ed abbonda nella letteratura popolare. Non solo, davanti agli impassibili giudici, Bo Xilai prosegue spiegando come i due, Wang e Gu, fossero finiti uno tra le braccia dell’altra, «rujiaosiqi», ovvero: appiccicati come colla. «Wang si è tradito quando ha cercato di consegnare una lettera a Gu», ha detto l’ormai ex leader che solo due anni fa incitava le folle a cantare gli inni maoisti in un tripudio di bandiere e nostalgia. Per proseguire: «In segno di pentimento si è schiaffeggiato da solo otto volte».
Le parole di Bo Xilai, un tempo capo del partito dell’immensa municipalità di Chongqing, Cina occidentale (32 milioni di abitanti), sono servite a spiegare, per l’ennesima volta, come la breve fuga di Wang Lijun, nel febbraio 2012, nel consolato americano di Chengdu, sarebbe stata ideata non per timore di essere ucciso in seguito alla «lite» sulla copertura di Gu Kailai dopo l’omicidio del businessman britannico Neil Heywood, bensì per «paura della mia reazione», confessa Bo Xilai. «Lui mi conosce benissimo, ha ferito la mia famiglia, i miei sentimenti. Sapeva che cosa aspettarsi».
Wang in precedenza aveva naturalmente dato un’altra versione degli stessi fatti. «Alla fine di gennaio 2012 — aveva spiegato alla corte riunita nell’aula numero 5 del tribunale provinciale di Jinan — ho informato Bo Xilai di quanto combinato da Gu Kailai, dell’uccisione di Neil Heywood e che non era più possibile nascondere i fatti». È stato a quel punto, sono le parole di Wang, che Bo «mi ha colpito con un pugno davanti a tutti i presenti. Temendo per la mia vita, sono scappato per chiedere asilo agli americani».
Il processo che doveva durare al massimo due giorni e invece è andato avanti per cinque, con trascrizioni più o meno censurate diffuse su Weibo, il Twitter cinese, è quindi arrivato alle battute finali. Il pm ha chiuso con una lunga arringa, che in sostanza può essere così riassunta: «Bo Xilai ha commesso gravi reati ma ha rifiutato di riconoscerlo e non si è pentito. Anzi, ha persino ritrattato le dichiarazioni scritte e controfirmate. Non c’è spazio per una sentenza indulgente». Versione opposta da parte dell’ex leader che ha nuovamente respinto tutti i capi di imputazione, dalla corruzione all’appropriazione indebita, all’abuso di potere: «L’accusa non è riuscita a dimostrare la mia colpevolezza. Ho firmato quelle “confessioni” contro la mia volontà perché, in realtà, io credevo di ottenere in questo modo il perdono del partito. Mi dispiace aver danneggiato l’immagine del Pcc e per questo chiedo scusa. Anche al popolo».
Il «dibattimento del secolo», come è stato definito in Cina, potrebbe portare a serie conseguenze per Bo Xilai. Se diverse fonti hanno spiegato come il paladino del neo maoismo potrebbe cavarsela con 15-20 anni di carcere, oggi sembra possibile anche una condanna «esemplare»: ergastolo o pena di morte. In ogni caso i giudici si sono presi un po’ di tempo per decidere (e consultarsi evidentemente con le massime autorità di Pechino) e la sorte di Bo Xilai non sarà nota prima di settembre.
Paolo Salom
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